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L'altare della cattedra in San Pietro durante la Lectio Petri L'altare della cattedra in San Pietro durante la Lectio Petri 

Ravasi e Galimberti in dialogo su San Paolo

Quarto appuntamento delle "Lectio Petri" dedicate a San Paolo nella Basilica di San Pietro. Gli interventi del presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura e del filosofo - introdotti dal cardinale Gambetti - ispirati dalla Lettera ai Romani

Maria Milvia Morciano - Città del Vaticano

Secondo Umberto Galimberti, il dialogo esiste alla condizione che gli interlocutori pensino cose diverse, anzi che vi sia la massima distanza dei pareri, ipotizzando che “il contraddittore abbia gradiente di verità superiore al proprio”. Questo genera tolleranza e quindi un vero dialogo. E ieri, 18 febbraio, il filosofo è stato in dialogo con il suo amico e compagno di liceo, il cardinale Gianfranco Ravasi: due posizioni antitetiche che bene hanno potuto realizzare le condizioni auspicate, generando un incontro speciale. Al centro delle riflessioni c’era la Lettera ai Romani, il “capolavoro teologico” di san Paolo.

La locandina della "Lectio Petri"
La locandina della "Lectio Petri"

Nella Basilica di San Pietro si è svolto infatti il quarto incontro delle Lectio Petri dedicate all’apostolo delle genti, promosso da “Il Cortile dei Gentili” e dalla Fondazione “Fratelli tutti”. Ha aperto il confronto il cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica papale e presidente della Fondazione, con una riflessione spirituale che, partendo dalle parole di - “Cosa succede nel cuore dell’uomo? ‘È ora di fermarsi’” - approdava al nucleo della lettera: restare fiduciosi sotto lo sguardo di Dio. “Paolo fu uomo libero - ha spiegato Gambetti - perché libero di amare, libero di fare il bene, non sottraendosi mai, proprio come Maria”.

Il cardinale Mauro Gambetti
Il cardinale Mauro Gambetti

Una grande architettura del pensiero cristiano

Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura e fondatore di “Il Cortile dei Gentili”, ha definito la lettera “una delle grandi architetture del pensiero cristiano”, spiegando che per lui doverla commentare rappresentava una vera sfida, perché la complessità del suo pensiero è evidente. "Affronta, infatti - ha spiegato - temi fondamentali: che cosa significa essere persona umana, il rapporto con Dio, la fede, la grazia". Questa complessità è stata espressa dal cardinale attraverso parole greche che - ha detto - “possono essere definite come stelle, alcune nere e altre luminose”. Parole chiave concatenate tra loro che dall’oscurità della σ?ρξ, sarx, carne, risalgono attraverso il "peccato" e la "legge" per approdare prima alla χ?ρι?, charis, la grazia, e poi ancora alla fede, π?στι?, pìstis, fino alla giustificazione, dikaiosýnê, e “questo è il grande dono di Dio che cancella il nostro male e permette di essere nuovi nell'essere, nell'esistere”.

Ascolta l'intervista al cardinale Gianfranco Ravasi, fondatore di "Il cortile dei gentili"


Ai microfoni dei media vaticani, Ravasi ha inoltre evidenziato l’attualità della Lettera e come possa essere recepita alla luce dei nostri giorni poiché, oltre alla dimensione teologica, contrariamente a quanto si creda, “una parte del testo è molto concreta, tratta perfino la questione fiscale, il tema molto attuale dei rapporti col mondo ebraico e quindi tutte le questioni a queste connesse". "Paolo, che veniva da quel mondo e che da quel mondo si era separato, - spiega - parla anche, per esempio, della comunità di Roma, composta da cristiani, cristiane e persone di diverso livello sociale. Quindi è un testo molto ricco anche per il nostro oggi”, conclude il cardinale.
Paolo di Tarso scrisse questa lettera mentre era a Corinto. È possibile anche datarla con una certa precisione, tra il 55 e il 57.  “Con questo scritto - spiega ancora Ravasi - si stava anche preparando ad andare a Roma, in qualche modo voleva accreditarsi presso questa comunità cristiana di prestigio e soprattutto fa capire che l'Urbe era una tappa importante perché poi voleva andare in Spagna". "Non sappiamo se questo suo sogno si è realizzato, probabilmente no", spiega il cardinale. "Conosciamo infatti bene anche tutte le sue vicende successive: quelle che lo condurranno dalla Terrasanta a Roma sotto scorta, dopo un processo, in domicilio coatto nella città dove incontrerà il martirio, dove però aveva la possibilità, grazie al diritto romano, lui che aveva la cittadinanza di incontrare, dialogare con chi veniva a trovarlo”.

Il cardinale Gianfranco Ravasi
Il cardinale Gianfranco Ravasi

Essere salvati

Uno dei temi fondamentali della Lettera è comunque la concezione del peccato della carne, che sarebbe per Paolo il “principio oscuro che è dentro di noi”, dell'impotenza di essere salvati soltanto attraverso la legge, cioè le proprie opere. Per Paolo non è “un salvarsi, ma essere salvati” ed ecco la grazia e la fede. "In tutta questa dimensione di accoglienza - spiega Ravasi - all'interno della Lettera c'è anche una parte, un capitoletto molto appassionato, che viene dedicato all'amore cristiano. Quindi riprende il messaggio di Cristo sull'amore, sulla base del fatto che proprio attraverso la grazia, la fede, si ha la nuova vita e la giustificazione. Questo è il grande dono di Dio che cancella il nostro male e permette di essere nuovi nell'essere, nell'esistere”, conclude il fondatore di “Il Cortile dei Gentili”.

Il filosofo Umberto Galimberti in Basilica al termine della Lectio Petri
Il filosofo Umberto Galimberti in Basilica al termine della Lectio Petri


Umberto Galimberti, filosofo, psicanalista e docente universitario, che nel suo intervento si è concentrato sul rapporto tra fede e ragione, ha premesso che pur non essendo credente "sta dalla parte di san Tommaso", il quale nel De fide scrive che “l'assenso fideistico non è promosso dalla ragione ma da un elemento estrinseco che è la volontà, per cui chi crede è perché ha la volontà di credere. Questo, prosegue san Tommaso citando san Paolo, rende l'intelletto inquieto, nondum est quietatus, lo pone in una condizione di infermità e timore, di tremore muto". "Questo è importante” - afferma ancora il filosofo - perché se incontro un credente che crede con timore e tremore, allora è possibile il dialogo. Se invece incontro un credente che è convinto di avere la verità assoluta, il dialogo è impossibile”. Se c’è appartenenza non c’è fede, “la fede non sa e per questo crede”, ha spiegato. “La fede – aggiunge Galimberti - è un cammino incerto e mai definitivo e può essere solo nell’amore”.

Riflessioni sul sacro

In occasione del Giubileo di 25 anni fa, Galimberti pubblicò Orme del sacro, una riflessione seguita, nel 2012, da un libro complesso, Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto. Ci spiega di aver scritto questo testo accorgendosi di aver firmato per il quotidiano “La Repubblica”, nei 15 anni precedenti, una quarantina di articoli su problemi religiosi, “perché il cristianesimo si stava traducendo in una sorta di ‘agenzia etica’ che si preoccupava di problemi di sessualità, di scuola di molte altre cose ma che si era dimenticato di parlare di Dio". "Allora Dio non c'è più, ed è vuoto il cielo perché - osserva - dal mio punto di vista il cristianesimo ha capito poco delle parole di Gesù". "E allora - ricorda - ho scritto anche un libro per bambini intitolato Le parole di Gesù, dove ho fatto vedere che Gesù, più che fondare una religione, chiede fiducia nella sua parola e spiega che la salvezza è di questo mondo". "Voglio dire: 'Hai ospitato l’immigrato? Hai visitato il carcerato in questo mondo?' ".

Religione del corpo

“Che Dio si è fatto uomo è per me la cosa più interessante del cristianesimo”, riflette ancora Galimberti. “A differenza delle altre religioni monoteiste, dove Dio non si fa uomo ma è assoluta trascendenza, sia per gli ebrei sia per i musulmani". "Questa è anche la ragione per cui, una volta che si fa uomo, muore e risorge", commenta il filosofo. "Ed ecco che così, il cristianesimo diventa la religione del corpo, non dell'anima. I primi cristiani non sapevano niente dell'anima, l'anima è un concetto di Platone, è lui che l'ha inventata, ma il cristianesimo non ha nessuna nozione di anima ed è una religione del corpo. Il centro del cristianesimo si chiama incarnazione". "Quando i cristiani fanno la comunione - commenta ancora Galimberti - ,non è che mangino l'anima di Cristo, ma il suo corpo e il suo sangue". "E quando recitano il Credo non dicono di credere nell'immortalità dell'anima, ma nella resurrezione dei corpi". E se noi abbiamo opere d'arte nelle chiese, l'arte è stata resa possibile dal cristianesimo in quanto religione del corpo". 

 

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19 febbraio 2025, 16:04