A Beirut, dove il cambiamento parte dai giovani cristiani. Czerny: siate luce nel buio
Salvatore Cernuzio – Beirut
Se non fosse per i palazzi anneriti o quelli sventrati dall’esplosione del porto del 2020, Beirut sembrerebbe una città dalla normale routine e non una delle più sofferenti dell’intero Medio Oriente. Un agglomerato di smog e grattacieli, di macchine che, sotto una perenne coltre grigia, percorrono la serpentina di strade con guida selvaggia e musica ad alto volume; con, da una parte, le macerie del quartiere di Dahieh, roccaforte di Hezbollah bombardato da Israele, e la desolazione del porto, e, dall’altra, negozi dalle insegne luminose arabo-inglesi, locali, striscioni che annunciano i funerali di domenica di Nasrallah e un panorama mozzafiato appena scende il buio intorno alle 16.
In preghiera per il Papa
In questo scenario vive una popolazione piagata dalla durissima crisi economica che ha spinto migliaia di giovani all’emigrazione e dalla recente guerra che ha devastato la zona meridionale, con danni anche nella capitale, e ha aggravato la crisi rifugiati. Sette milioni circa gli abitanti del Libano, circa due sono profughi: siriani, palestinesi, anche africani e asiatici che fungono da manodopera. Molti sono per strada e guardano passare la macchina nera con a bordo il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, inviato dal 19 al 23 febbraio in Libano per portare la vicinanza del Papa a vescovi e patriarchi e incoraggiare le iniziative della Chiesa locale. Proprio il Papa, ricoverato al Gemelli, è il pensiero costante del porporato, il quale - partito ieri da Roma - ha affidato la salute del Pontefice alla Nostra Signora del Libano, la cui statua svetta da un’altura di 600 metri sorvegliando la città e il mare. Ai suoi piedi, Czerny, salendo tutti gli oltre cento gradini percorsi ogni giorno dai pellegrini (anche musulmani sciiti, molto devoti alla Madonna), ha invocato pace per il Paese, per i libanesi in esilio, per il Medio Oriente.
Guerre, guerre e ancora guerre
“Preghiamo per la pronta guarigione del Santo Padre”, ha detto Czerny a quanti ha incontrato al suo arrivo nella capitale libanese, a cominciare dal nunzio apostolico Paolo Borgia e dall’arcivescovo maronita di Tripoli, Youssef Soueif che lo hanno accolto nell'aeroporto Rafic-Hariri. Lo stesso di cui i libanesi conservano sugli smartphone le immagini di atterraggi aerei sotto un cielo di fuoco, durante i raid israeliani. Immagini di guerra, un’ennesima guerra per il Libano: “Ne abbiamo avuta una ogni quindici anni. Dalla guerra civile del ’75 sempre viviamo in un ambiente di guerre, guerre, pause, e di nuovo guerre. Abbiamo quasi sviluppato un’immunità”, commenta monsignor Soueif. L’ultimo conflitto tra Israele ed Hezbollah ha mutato equilibri già delicati, ampliando la massa di rifugiati spostatisi dal Sud verso centro e nord: “Hanno in qualche modo imposto la loro presenza, ma sono stati accolti”. Tutti. Soprattutto dalla Chiesa cattolica che in Libano mantiene una struttura forte e ha voce e libertà (raro o forse unico caso in Medio Oriente).
Guadagnare la fiducia internazionale
Molta gente la mattina stessa del cessate il fuoco è tornata in case e villaggi e non ha voluto lasciare il proprio Paese: “Qui si cerca di costruire il futuro anche se non c’è”, spiega Soueif, che tira un sospiro di sollievo quando parla dell’elezione del nuovo presidente Joseph Aoun dopo un lungo stallo. “Ora lavoriamo per rafforzare lo Stato e la posizione della Chiesa, bisogna guadagnare la fiducia nazionale e internazionale. Quando c’è un sistema che funziona bene, la gente rimane”.
La morsa della crisi
La realtà attuale è però che “non ci sono investimenti, non ci sono i soldi delle persone, uscite dalle banche dopo il crollo e finite chissà dove”, racconta l’arcivescovo. “Prima della crisi un dollaro valeva 1.500 lire libanesi; dopo la crisi, 90 mila lire. Man mano si riprende il ritmo con negozi e produzioni locali. Tanti lavoratori, specie nella mia Tripoli, sono tornati a lavorare la terra. Ma si arriva giusti giusti a fine mese, nessun giovane può pianificare di sposarsi o comprare casa. Si vive di aria”, denuncia il vescovo. Racconta inoltre del flusso continuo di persone che bussa a parrocchie e uffici della diocesi e si commuove parlando dei libanesi della diaspora che dall’estero inviano denaro ai familiari: “Ogni anno arrivano in Libano 7-8 miliardi. Un atto di solidarietà incredibile che mostra a questo popolo che non è abbandonato”.
Vicinanza alla gente
Proprio la vicinanza al popolo è l’obiettivo della missione del cardinale Czerny che a Tripoli e in altri villaggi del Sud si recherà nei prossimi giorni. Ieri e oggi le giornate sono state dedicate a una serie di incontri istituzionali: in mattinata l’intervento all’Assemblea dei Patriarchi e Vescovi Cattolici del Libano (APECL), motivo principale del viaggio; ieri sera la visita al cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca dei maroniti, nella sede del Patriarcato a Bkerké, e infine il dialogo con i giovani della Leadership Academy for Peace, iniziativa – sostenuta dal Dicastero per lo Sviluppo integrale – che mira a promuovere la formazione di ragazzi cattolici under 35 nella regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) dotandoli degli strumenti necessari per diventare leader politici, attraverso principi e valori della Dottrina Sociale cattolica.
Alla tomba di padre Kolvenbach
Il cardinale li ha incontrati nella Nunziatura Apostolica, di ritorno da un momento intimo e personale: la visita alla tomba di padre Peter Hans Kolvenbach, il gesuita olandese, preposito generale della Compagnia dal 1983 al 2008, che in Libano ha insegnato e ha “lasciato il cuore”, chiedendo di essere sepolto in questa terra. La tomba, una lapide di marmo in mezzo ad altre venti uguali di gesuiti libanesi e missionari (tra cui Andreas Masse, martire fucilato a Sidone negli anni ’80), risiede nel cimitero interno al complesso del Collége Notre-Dame, scuola “tra le migliori del Libano” nel quartiere bene di Baabda, gestita dalla Compagnia.
Di Kolvenbach l’allora padre Czerny è stato per undici anni segretario per l’Apostolato sociale. Oggi nel piccolo cimitero gli ha reso omaggio soffermandosi in preghiera per qualche istante e inginocchiandosi sulla terra. Poi con i media vaticani ha condiviso un ricordo: “Alla luce del Vaticano II, Kolvenbach ha instancabilmente rinnovato e sistemato tutti gli aspetti della spiritualità, della comunità, della formazione e soprattutto della missione della Compagnia di Gesù. Un lavoro culminato nell’aggiornamento delle Costituzioni nel 1995”.
L'insegnamento cattolico
L’eredità di Kolvenbach è viva pure nel programma di studi del Collége, frequentato da 3.300 studenti, perlopiù cristiani. Anche sette ministri del nuovo governo sono ex alunni o hanno figli nell’istituto, riferisce il direttore. Un 2% degli studenti è musulmano. In generale, spiegano, l’insegnamento cattolico rimane un riferimento in Libano per le altre religioni: “Perché c’è qualità, ci sono valori, c’è lo spirito, c’è il Vangelo”.
Testimonianze dei giovani
Sono gli stessi principi che portano avanti, ma in altro ambito, i 120 ragazzi e ragazze della Leadership Academy for Peace. Lo hanno raccontato alcuni di loro in Nunziatura al cardinale. Michel, per primo, che ha espresso gratitudine al progetto: “Ho capito che come cristiani dobbiamo alzare la voce, non dobbiamo solo mangiare e dormire ma abbiamo valori da trasmettere”. Poi Fouad che si è fatto portavoce di tanti coetanei che “esitano a impegnarsi in politica, non per apatia, ma per un comune senso di orfanezza, sentendoci del tutto privi di riferimenti e di figure che ci ispirino e guidino”. “Eppure – ha aggiunto il giovane - sono in piedi e dico: se non ci facciamo avanti noi, chi lo farà?”. Anche Jihan, “cristiana libanese che crede nel futuro del Paese”, ha parlato della politica come di un “dirty game”, ma, ha affermato, "i nostri mentori in Accademia ci mostrano che la politica non è all’origine corrotta, non è un gioco sporco ma qualcosa che si può restaurare”. Ancora, Rudy ha condiviso la sua esperienza a Palermo al Consiglio dei Giovani del Mediterraneo come rappresentante della chiesa siriaca, e Julie che ha affermato: “Non c’è conflitto tra politica e cristianità. La politica è per servire, la mia vocazione è servire la comunità, la mia fede cristiana voglio immetterla nella pratica politica”. Infine i gemelli Charbel e Giovanni hanno illustrato la loro campagna social per far superare ai ragazzi quel senso di vittimismo dovuto al fatto di essere nati in un posto come il Libano. “Cerchiamo di trasmettere che anche noi possiamo diventare leaders. Siamo spaventati dal diventarlo, dallo stare in politica, ma dobbiamo e possiamo essere protagonisti del cambiamento”.
Speranza per i Paesi che vivono gli stessi problemi
Grazie per “l’impegno, la condivisione, le buone notizie”, ha detto loro Czerny prendendo parola: “Mostrate speranza ad altri Paesi che vivono gli stessi problemi. Siate luce nel buio”, ha aggiunto. Per il cardinale, ha confidato lui stesso, alla radice di tanti problemi c’è la governance ma i colloqui con Papa Francesco gli hanno chiarito che invece “è la fraternità la chiave di ogni problema”. “Se siamo fratelli e sorelle, siamo bravi governanti”, ha detto, richiamando il messaggio della Evangelii Gaudium e, cioè, che “la vocazione cristiana di base è evangelizzare”. Sempre e ovunque, “se necessario anche con le parole”, ha affermato citando il detto attribuito a San Francesco d'Assisi ricordato tante volte dal Papa. Due le soluzioni offerte da Czerny, "preghiera e lavoro", mututate dall'insegnamento di Sant'Ignazio: “Pregate come se tutto dipendesse da Dio; lavorate come se tutto dipendesse da noi”. A chiusura dell’incontro, un Padre Nostro recitato tutti insieme per la “pronta guarigione” del Pontefice.
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