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L'Alta Corte di Giustizia di Londra (The Royal Court of Justice in London) L'Alta Corte di Giustizia di Londra (The Royal Court of Justice in London)

Pe?a Parra: contro di noi lupi vestiti da agnelli. Informato male sui contratti per Londra

Seconda udienza del sostituto della Segreteria di Stato presso l’Alta Corte di Giustizia sull'affare del palazzo di Sloane Avenue, anche oggi prevalentemente incentrata sui rapporti con Torzi: “Non avevamo altra scelta che pagarlo, tutti mi hanno supportato”. L’arcivescovo ha ribadito che mai avrebbe ratificato gli accordi con Mincione e Torzi se avesse avuto le giuste informazioni: raggirato quando ho chiesto chiarimenti a collaboratori e a chi mi era stato presentato come avvocato della SdS

Salvatore Cernuzio - Londra

“Vostro Onore, da quel momento la nostra decisione, la nostra volontà è stata quella di uscire da questa situazione. Lo sapevo e tutti gli interessati lo sapevano… 5 milioni erano qualcosa che fa parte delle tricky things (trappole) ma siamo stati costretti a farlo, per ottenere cosa? La libertà, essere liberi da queste persone, essere finalmente liberi. È questo il punto. Non avevamo altra scelta. Anche il Santo Padre mi ha detto di provare a perdere il minimo possibile e girare pagina”.

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I rapporti con il broker Gianluigi Torzi e con altri personaggi definiti “lupi vestiti da agnelli” che gravitavano intorno al Vaticano sono stati al centro del secondo interrogatorio di oggi, 5 luglio – durato mattina e pomeriggio – presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra, del sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Edgar Peña Parra. Come nella prima udienza di ieri, a condurre l’interrogatorio è stato l’avvocato Charles Samek, difensore del finanziere Raffaele Mincione, la cui azione legale ha avviato il processo civile in corso iniziato il 24 giugno scorso. E come nella prima udienza di ieri quasi nessun cenno è stato fatto alle transazioni con Mincione, gestore del fondo che aveva in pancia l’immobile di Sloane Avenue, ma prevalentemente sulle operazioni con Torzi (condannato in primo grado dal Tribunale vaticano), al cui fondo Gutt era passata la gestione del palazzo con un accordo che garantiva al broker mille azioni con diritto di voto. Quindi il totale controllo della proprietà. Una “trappola” l’aveva già definita Peña Parra a causa della quale la Santa Sede, dopo una serie di pressioni e anche ‘minacce’ da parte di Torzi (come quella di vendere a terzi il palazzo oppure usarne le entrate per finanziare le sue società), si è trovata costretta a pagare i 15 milioni di euro per chiudere ogni rapporto. Un pagamento in due tranche di 10 e 5 milioni certificato con fatture, volute da Torzi, in parte a riferite a “consulenze” mai rese.

Forzati a pagare

In un tempo più esteso, Peña Parra ha potuto meglio definire i contorni di queste operazioni nei mesi di trattazione col broker tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, come pure il clima di pressione dovuto dal ritrovarsi, secondo quanto accertato dai giudici vaticani, vittime di un reato. “I 15 milioni mai, mai si dovevano pagare”, ha sottolineato il sostituto. “Già avevamo fatto un’altra operazione di 40 milioni per essere liberi e, dopo, a dicembre mi trovo nella stessa posizione con Torzi, le mille azioni, la WRM (società facente capo a Mincione, in teoria estromesso dall’affare con un accordo siglato nel 2018 ndr) nella amministrazione del palazzo e noi che continuiamo a pagare 6 milioni all’anno. Siamo stati forzati a pagare e tutti nel Vaticano sapevano e mi hanno supportato in questo”.

La Royal Court of Justice di Londra
La Royal Court of Justice di Londra

Trattative con Torzi

A lungo nel corso dell’udienza – durata dalle 10.30 alle 16.30, con una pausa – ci si è soffermati sul motivo per cui nelle trattative con Torzi dall’ipotesi iniziale di liquidarlo con 1 o 2 milioni di euro (“anche quelli erano comunque troppi”), si è passati a 9 milioni e infine ai 15 effettivamente pagati. Secondo quanto affermato da Peña Parra, la cifra di 9 milioni uscì da una riunione al Bvlgari Hotel con il broker e Fabrizio Tirabassi ed Enrico Crasso (rispettivamente dipendente e consulente della SdS, condannati a vario titolo in primo grado). Di quella riunione l’arcivescovo ha detto di esserne venuto a conoscenza giorni dopo. È noto, come emerso nel dibattimento in Vaticano, che Torzi arrivò a chiedere fino a 25 milioni di euro come pagamento del suo lavoro di gestione e per il mancato futuro guadagno. E che si inviò l’allora segretario del sostituto, monsignor Mauro Carlino (unico assolto dei dieci imputati del processo vaticano) a mediare col broker.

Informazioni ai superiori

Quanto ai contratti con Mincione e Torzi del novembre 2018, è stato chiesto più volte al sostituto se avesse informato i suoi superiori, cioè il Papa e il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, delle sue mosse. Quasi come a voler testare la sua lealtà e affidabilità. L’arcivescovo ha confermato di aver sempre informato preventivamente Papa Francesco e Parolin di ogni azione; anche ad esempio quando, con una iniziativa fuori da ogni “protocollo” decise di contattare il revisore generale, Alessandro Cassinis Righini, il sabato 24 novembre 2018 per un parere sui contratti stipulati per la proprietà londinese e in particolare il framework agreement che suggellava il passaggio dal fondo Gof (di Mincione) al Gutt (di Torzi).

Il parere del Revisore generale

“Vorrei sottolineare – ha detto il prelato dal banco dei testimoni dell’aula 19 - che era la prima volta che il sostituto consultava il revisore generale. Non era una tradizione della Segreteria di Stato che ha una sua autonomia. Ma nonostante ciò volevo essere veramente sicuro di ciò che avremmo fatto. Ero da un mese in ufficio, stavo guardando ancora dove fosse la mia sedia… Ho fatto un atto straordinario che non è stata certo una gioia per l’Ufficio Amministrativo”.

Cassinis Righini rispose al sostituto lunedì 26 novembre con una lettera. Il Papa e Parolin erano informati di questa decisione di interpellare “persone competenti”, ma non è stata poi inviata loro la risposta di Cassinis: “No – ha spiegato monsignor Peña Parra - perché era qualcosa indirizzata a me, non a loro. Ero l’unico coinvolto, io sono il sostituto. Ed ero solo in questa operazione…”

Mai ricevuto un secondo documento

L’avvocato di Mincione ha fatto notare che però ci fosse una seconda risposta del revisore, quella che sconsigliava vivamente di procedere alle transazioni. Ma perché il sostituto non ne tenne conto? La replica di Peña Parra è stata diretta: “Non ho mai ricevuto questo documento. L’ho visto quando era in corso il processo in Vaticano”. Inviato alla Segreteria di Stato, è arrivato su qualche scrivania ma non su quella del sostituto.

“Se avessi ricevuto qualcosa in cui raccomandavano che l’operazione non va bene, per me sarebbe il miglior regalo che potessi ricevere nella vita perché avrei avuto un’autorità che diceva di non andare avanti”, ha detto il teste. “Mi dispiace di non aver visto questo documento, altrimenti non sarei qui”.

Il ruolo di Squillace

In una girandola infinita di documenti e di nomi – tutti quelli già emersi nelle 86 udienze del processo vaticano – nella seduta di oggi è stato richiamato il ruolo dell’avvocato Nicola Squillace. Presentatogli come avvocato della Segreteria di Stato, con gente che vi collaborava da 10 o 30 anni, Peña Parra chiese anche a lui un parere su queste “mille azioni con diritto di voto”. Cosa significavano? Doveva passare ancora un mese prima che la Segreteria di Stato venisse a sapere dal consulente Luciano Capaldo che i contratti stipulati con Mincione e Torzi, entrambi con la firma di monsignor Alberto Perlasca (“senza autorizzazione”), avevano fatto acquisire “scatole vuote”. Motivo per il quale il Papa giorni dopo convocò il sostituto in una riunione a Santa Marta, alla presenza anche dell’avvocato Manuele Intendente e Giuseppe Milanese, per vederci chiaro. Lì Peña Parra si rese conto che la situazione era fuori controllo.

All’epoca invece Squillace, ha ricordato oggi Peña Parra, “ci aveva riaffermato che le mille azioni servivano solo a dare a Gutt la possibilità di entrare nell’amministrazione del palazzo”. Dopo queste rassicurazioni, il sostituto ha ratificato la firma di Perlasca: “Io appena arrivato, ho provato a fare del mio meglio per avere una chiara foto di ciò che succedeva in Segreteria di Stato. Niente più del necessario…”.

L'ingresso della "sezione commerciale" dell'Alta Corte
L'ingresso della "sezione commerciale" dell'Alta Corte

Il finanziamento dello IOR

Durante l’udienza è stata poi affrontata la questione del finanziamento di 150 milioni richiesto dallo stesso Peña Parra allo IOR per rinegoziare l’oneroso mutuo di Cheyne Capital stipulato da Mincione per il palazzo di Londra. Una mossa ‘interna’ per evitare alla Santa Sede di continuare a perdere quasi un milione al mese. L’Istituto per le Opere di Religione aveva prima garantito il prestito per poi fare marcia indietro dopo qualche mese. Cosa che aveva lasciato sorpreso il sostituto: “Perché ritardare?”. Anche il direttore (Gian Franco Mammì, ndr) aveva assicurato che tutto fosse pronto. Invece al posto del mutuo arrivò una denuncia da parte dello IOR. Quella che ha dato il via alle indagini su tutta questa complessa vicenda rimbalzata da Roma a Londra.

A Peña Parra è stato domandato se fosse vero che, dopo il rifiuto, si fosse rivolto a gente vicina ai Servizi Segreti italiani per mettere sotto controllo il direttore dello IOR, anche con intercettazioni telefoniche. Il telefono non c’entrava niente, ha chiarito il teste: “Ho chiesto al capo della Gendarmeria di avere una mappa chiara di tutte le società e compagnie impegnate con noi durante quel periodo. Volevo prevenire in futuro di avere a che fare con gente simile”.

L'ultima parte dell'interrogatorio al sostituto si terrà la mattina dell'8 luglio.

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05 luglio 2024, 18:30