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Il processo nell'Aula dei Musei Vaticani per i presunti illeciti compiuti con i fondi della Santa Sede Il processo nell'Aula dei Musei Vaticani per i presunti illeciti compiuti con i fondi della Santa Sede 

Processo vaticano, parla il revisore generale Cassinis Righini

Il secondo testimone dell’accusa ha raccontato le sue difficoltà nel reperire la documentazione sugli investimenti gestiti dalla Segreteria di Stato

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Risposte spesso evasive e nel complesso un atteggiamento di chiusura, scarsamente collaborativo. È il ritratto del rapporto con la Segreteria di Stato offerto oggi dal revisore generale, Alessandro Cassinis Righini, durante l’interrogatorio come secondo testimone dell’accusa nella ventisettesima udienza del processo vaticano per presunti illeciti con i fondi della Santa Sede. 

Interrogato il revisore 

In meno di due ore, nell’Aula dei Musei vaticani, il revisore – interrogato da Roberto Zannotti, in sostituzione al Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi - ha descritto con tono critico l’agire in campo finanziario dell’importante Dicastero, in particolare dell’Ufficio amministrativo, durante gli anni in cui lui ha lavorato nell’Ufficio del Revisore, prima come aggiunto, poi revisore ad interim, infine dal 2021 con incarico formale. L’Ufficio è uno dei tre organismi economici, insieme a Consiglio per l’Economia e Segreteria per l’Economia, frutto del lavoro della disciolta Cosea. Da esso partì nel 2019 la segnalazione che, insieme a quella dello IOR, diede il via all’inchiesta che ha portato al processo.

La denuncia del 2019

Di quella che costituì la notizia criminis si è parlato più volte oggi in aula. La denuncia, ha spiegato Cassinis, era il risultato di mesi trascorsi a chiedere documentazioni, perizie e bilanci alla Segreteria di Stato, senza mai ottenere risposta. Oppure a sentirsi ribattere: “Dei bilanci meno scriviamo, meglio è”, come fece una volta monsignor Alberto Perlasca, allora capo dell’Ufficio amministrativo, durante una riunione.

Più nel dettaglio, il revisore è tornato all’estate del 2018 quando il Papa in persona gli conferì l’incarico di svolgere una revisione specifica del Dicastero, in vista dell’avvicendamento alla guida della prima sezione. Angelo Becciu, creato cardinale, lasciava il ruolo di sostituto per diventare prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Al suo posto subentrava, il 15 ottobre 2018, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra. A quest’ultimo il Papa voleva che il revisore facesse “una fotografia dell’esistente”. Prassi che Papa Francesco, ha spiegato Cassinis, “ha sempre seguito ogni volta che c’è stato un cambio al vertice di altre istituzioni, ad esempio l’APSA o Propaganda Fide”.

Mai nessuna risposta

Nell’attesa del nuovo sostituto, il revisore si interfacciava con l’assessore Borgia: “Iniziammo le attività che mostrarono immediatamente alcune cose che sembravano molto strane”. “Continuavamo a chiedere conto di alcune scelte, di alcuni documenti, senza avere risposta”, ha spiegato il teste: “Mancavano perizie per la valutazione di immobili? Mai fornite. Chiedevamo lettere di circolarizzazione con le banche svizzere? Mai date. I bilanci? Neanche. Molti bilanci usati per la ricostruzione del quadro li abbiamo trovati facendo query sulle Camere di commercio nazionali e internazionali”.

Il contratto di pegno con Credit Suisse

Soprattutto, ha detto il testimone, mai è stato fornito il “contratto di pegno” con Credit Suisse sul patrimonio della Segreteria di Stato (pari, ha affermato, ad un totale di 928 milioni di euro). Si tratta, cioè, dell’operazione con la quale il Dicastero, dando in pegno una parte dei suoi averi, ottenne le risorse per procedere all’acquisto del Palazzo di Londra. Secondo Cassinis Righini i soldi impegnati erano 516 milioni, ma nel corso dell’udienza si è fatto sempre cenno alla cifra di 564 milioni. “Tutto questo quadro non ci tornava, non riuscivamo a capire… I soldi erano impegnati perlopiù in attività non liquide, con prodotti speculativi, in palese conflitto d’interesse con chi aveva suggerito questi investimenti”. Cioè Enrico Crasso, per decenni referente per Credit Suisse Italia e al contempo consulente finanziario del Dicastero dagli anni ’90, anch’egli imputato.

"Non era quello il modo di gestire i soldi dell’Obolo” 

Era evidente che non era quella la maniera più appropriata di gestire i soldi dell’Obolo di San Pietro”, ha affermato il revisore generale. Sempre sull’affare di Londra, ha rivelato di aver espresso perplessità già dal 26 novembre 2018, quando gli fu sottoposta la lettera con cui Parolin avrebbe autorizzato a procedere alla stipula del contratto per passare dal fondo Gof di Raffaele Mincione al Gutt di Gianluigi Torzi (i due broker, entrambi imputati). Quest’ultimo trattenne mille azioni con diritto di voto per mantenere l’esclusivo controllo dell’immobile. Già allora, ha assicurato Cassinis, era stato segnalato che Torzi avrebbe fatto questa mossa, che – com’è noto - costò alla Santa Sede 15 milioni per riacquisire la proprietà del Palazzo. “Era inammissibile, fu suggerito di non dare esecuzione all’accordo, invece fu chiuso il 3 dicembre in quelle modalità. Non capisco perché con quella fretta”.

La revisione di PWC

Lo stesso atteggiamento ambiguo, Cassinis Righini ha detto di averlo riscontrato quando l’allora prefetto della Segreteria per l’Economia, il cardinale George Pell, firmò un contratto con una società di consulenza finanziaria esterna, la Price Waterhouse Cooper (PWC), per svolgere una revisione contabile di tutti i Dicasteri della Curia. Fu Becciu, secondo la sua ricostruzione, ad opporsi spiegando che c’era un revisore interno, perché allora incaricare una società esterna a controllare i conti dello Stato? In proposito Cassinis ha citato una frase dell’allora sostituto: “Noi siamo abituati a controllare, non ad essere controllati”. Con la Pwc era stato firmato però un contratto; la società continuò le sue attività ma la revisione contabile della Segreteria di Stato fu redatta dall’Ufficio del revisore. A queste espressioni concernenti il cardinale, ha replicato l’avvocato Fabio Viglione ricordando che nel 2016 il Papa, proprio in seguito alla querelle su PWC, aveva firmato un Rescritto consegnato al segretario di Stato, Pietro Parolin, in cui ribadiva la piena autonomia finanziaria del Dicastero. “Di Rescritti ne sono girati diversi, questo non me lo ricordo”, ha risposto il teste.  

Investimenti poco etici  

Nel corso dell’interrogatorio – non solo quello di Zannotti ma anche delle parti civili e dei difensori – Cassinis Righini ha poi espresso le sue critiche verso investimenti o progetti di investimento della Segreteria di Stato di dubbia eticità. A cominciare dalla nota proposta del pozzo di petrolio in Angola, nonostante “le note posizioni etiche ambientali del Papa”. Cassinis ha citato anche degli hedge funds dell’APSA su prodotti “non in linea con la Dottrina Sociale della Chiesa, come case produttrici di anticoncezionali. Avevamo segnalato questa cosa all’APSA che infatti ha poi provveduto a vendere le partecipazioni”. Peraltro tutti questi titoli “non avevano una quotazione di mercato trasparente” e “si pagavano più commissioni” a fondi "viscosi". Il problema, secondo il revisore, era anche di “competenza”: nell’Ufficio amministrativo, oltre allo scarso personale, come lamentavano Perlasca e i sostituti, c’era “soprattutto un problema di competenze perché molte persone non avevano la contabilità. Era un disastro… Non si capiva nulla”.

Patrimonio di 928 milioni di euro 

Un ultimo cenno, da parte del testimone, ai 928 milioni di euro che fino al 2018 avrebbero costituito il patrimonio complessivo della Segreteria di Stato. Cifra calcolata in un reporting package che ogni Dicastero di Curia ha l’obbligo di redigere e inviare alla Segreteria per l’Economia per stilare il bilancio generale. Di questi, 750 milioni erano stati versati in istituti bancari esterni al Vaticano, in particolare in banche svizzere, in particolare Credit Suisse. “Come mai?”, hanno domandato alcuni legali. Cassinis Righini ha detto di non conoscerne il motivo. Così come ha detto di non sapere se “l’autorità suprema”, cioè il Papa, era al corrente di tutto ciò: “Becciu sicuramente sì. Il Santo Padre non credo”.

Le prossime udienze

A conclusione dell’udienza – aperta con la seconda parte dell’interrogatorio al consulente del Promotore di Giustizia, Roberto Lolato, escusso ieri – il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ha elencato le date delle prossime udienze. Cinque quelle in programma a ottobre: 12, 13, 14 e poi 19 e 21. Per novembre sono fissati i giorni 10, 11, 23, 24, 25, 30; a dicembre 1, 2, 15 e 16. Saranno ascoltati tutti i testimoni dell’accusa, al momento circa 41. Non calendarizzato per ora l’interrogatorio al direttore dello IOR, Gian Franco Mammì, previsto per oggi. In tutte queste date, ha detto Pignatone, “bisogna collocare Perlasca da qualche parte. Sarà sicuramente un interrogatorio lungo”.

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30 settembre 2022, 15:30