Ghirlanda: con la Praedicate Evangelium una Chiesa più missionaria e sinodale
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Domenica 5 giugno, nella Solennità di Pentecoste, entra in vigore la nuova Costituzione apostolica , promulgata lo scorso 19 marzo, che riforma la Curia romana. Abbiamo chiesto al padre gesuita Gianfranco Ghirlanda, che sarà creato cardinale il prossimo 27 agosto, di individuare le novità del documento. Il religioso, già rettore della Pontificia Università Gregoriana, insiste sul discernimento come criterio di applicazione delle norme.
Padre Ghirlanda, domenica, nella Solennità di Pentecoste, entra in vigore la nuova Costituzione apostolica di Papa Francesco Praedicate Evangelium. Come cambierà la Curia?
Un punto fondamentale della Costituzione è quello della missionarietà: la spinta ad evangelizzare, sia lì dove il cristianesimo si è impiantato fin dalle origini da molti secoli - e che effettivamente sta sparendo per l’invasione e il prevalere di una cultura secolarizzata e che cambia veramente la mentalità alle radici - sia laddove non è stato accolto il Vangelo. Ma ha anche delle ripercussioni nella Curia stessa che deve evangelizzarsi, nel senso che deve confrontarsi continuamente con il Vangelo, il che è normale per qualsiasi istituzione all’interno della Chiesa ma comunque trova in questo un incentivo da parte del Santo Padre. Da qui tutta l’insistenza sulla pastoralità delle persone che lavorano nella Curia. Già in un’allocuzione alla Curia romana il Papa diceva che una Curia si rinnova non con uomini nuovi ma con uomini rinnovati, rinnovati interiormente. Quindi è tutto un processo di conversione a cui il Papa invita. L’altra linea è quella della sinodalità che abbraccia tutta la Chiesa ma deve abbracciare anche ovviamente la prassi della Curia sia ‘ad intra’ che ‘ad extra’: la sinodalità significa che tutti, secondo il proprio incarico, devono partecipare: si parla proprio di convergenza degli intenti. Inoltre, ciò che il Santo Padre cerca di fare è togliere una mentalità ‘carrierista’.
Negli uffici rimangono cinque anni e, i chierici o i membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di Vita apostolica ritornano al proprio istituto o alla propria diocesi a meno che non venga confermata la persona perché se ne vede il valore e, io aggiungerei, perché si vede che non ha mire carrieristiche, appunto. L’importante è che la gente non si metta in una scala. Così, non necessariamente i capi dicastero debbono essere cardinali: possono infatti essere dei vescovi o presbiteri o anche dei laici. In questa maniera si toglie l’escalation all’interno di un dicastero o della Curia per arrivare a essere capo di un dicastero e poi automaticamente cardinale. Mi sembra che ci sia un intento, da parte del Santo Padre - e io sono completamente d’accordo - di entrare veramente in una mentalità di servizio e non di un servizio che viene ripagato con la carriera.
Quindi ai laici potrà essere affidata la guida di un Dicastero. Quale è la portata di questa norma contenuta nel documento?
È nella logica che spiegavo ma è anche all’interno di una visione più ampia perché già il Codice ammette che dei laici possano essere dei giudici nei tribunali ecclesiastici, quindi determinano la validità di un sacramento, esercitano una potestà giudiziale. Poi ci sono anche altri uffici che non richiedono il sacramento dell’Ordine e che possono essere assunti dai laici i quali ricevono una potestà legata proprio all’ufficio oppure una potestà delegata. Ora, la previsione che possa essere capo di dicastero un laico o una laica è in questa linea. Si tratta di una partecipazione dei laici alla pienezza di potestà che esercitano i vescovi e in alcuni ambiti i chierici. Poi, certo, dipenderà dall’autorità che conferisce l’ufficio di vedere quando c’è questa opportunità. Ovviamente, non ha senso pensare come capo di dicastero per i vescovi o per il clero o per la Dottrina della Fede un laico o una laica. Ma certamente la presenza dei laici al dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita o a quello dello Sviluppo integrale o per il Dialogo interreligioso potrebbe essere giudicata l’opportunità. Perché la mentalità è che a capo di un dicastero ci sia una persona competente. Questo per me è fondamentale. Del resto, sarebbe la persona stessa, che è in un posto direttivo e che non ha competenza, a trovarsi a disagio. Siamo di fronte a tutta una visione innovativa che richiede tempo perché si tratta di cambiare mentalità, prospettiva, sia da parte dei chierici ma anche da parte dei laici perché questo non deve essere visto da loro come il raggiungimento di una meta e quindi una rivendicazione. Perché allora rientreremmo anche qui nella logica della carriera…
A proposito di carrierismo, Papa Francesco ripete spesso che è necessario attivare processi più che occupare spazi…
Sì, è attivare un processo che inizia nello studente oppure in chi riceve il mese di Esercizi spirituali o in chi ha accompagnato spiritualmente… perché tutto può trasformarsi in un ruolo, anche stare dentro a un confessionale. Io posso semplicemente applicare automaticamente quello che ho studiato, svolgere un ruolo, magari anche molto ortodosso, molto serio, però forse posso incorrere nel rischio di non avviare nessun processo nella persona. Se invece coltivo un rapporto con le persone - per esempio, con persone che convivono da oltre vent’anni o sono sposate civilmente e potrebbero sposarsi canonicamente – posso iniziare un processo, nel senso che le persone arrivino alla convinzione di voler chiedere il sacramento e andare oltre il ruolo del canonista che dice: puoi fare questo e non puoi fare quest’altro.
Lei che è stato al servizio della Santa Sede come consultore di varie Congregazioni e Consigli, come accoglie la sua nomina cardinalizia? E come leggerla alla luce della spiritualità ignaziana?
Noi facciamo un voto di non accedere alle cariche ecclesiastiche. Direi che questo è un grande valore perché sradica in fin dei conti nel nostro animo il carrierismo. Qui però ci troviamo di fronte a una cosa diversa da una carica ecclesiastica, come per esempio l’episcopato, il cardinalato non è una carica: è l’entrare a far parte di una collaborazione con il Romano Pontefice più diretta e più stretta. In questo caso è il Papa che decide. Era una cosa completamente aliena da me. È un atto che un gesuita accoglie pienamente nell’obbedienza. Non lo riteniamo come un arricchimento ma come una richiesta da parte del Papa di un servizio anche maggiore di quello che si è dato fino a questo momento.
Il suo è un lungo impegno nello studio e nell’insegnamento del diritto canonico. Che spazio e valore ha nella sua vita quella dimensione pastorale di cui si parlava, a contatto con il popolo di Dio?
Io ho sempre vissuto l’insegnamento come una attività pastorale, sacerdotale. Ho cercato di comunicare agli alunni. D’altra parte tante volte loro mi hanno detto: abbiamo imparato ad amare Cristo e la Chiesa attraverso il diritto canonico. Poi, certo, nella mia vita ho sempre avuto una nota pastorale più diretta, se così vogliamo dire: per tantissimi anni sono andato sempre in parrocchia a confessare, a dire la Messa, ho sempre avuto qualche gruppo di laici a cui ho anche dato mensilmente dei ritiri, dal ’77 do il mese di Esercizi ogni anno. Poi c’è la direzione spirituale…. Ma io non ne faccio una distinzione di qualità perché l’insegnamento ha riempito la mia vita proprio con questa impostazione, nella coscienza di non trasmettere semplicemente delle nozioni ma l’acquisizione di atteggiamenti e di una vita: è questo che forma.
Quale è lo spazio del discernimento in una attività legata al diritto, al Codice?
È secondo come concepiamo il diritto. Se lo concepiamo come la produzione di una norma che sorge dalla vita della Chiesa e aiuta la vita della Chiesa, è naturale che anche l’applicazione del diritto sarà sempre – tenendo presente la norma – un discernimento di come applicare quella norma in un caso concreto. Non è sempre così automatico ma richiede talvolta una gradualità. Diciamo che la persona ha bisogno di una conversione del cuore, innanzitutto, che avviene nel tempo, ognuno è un caso a sé. Certo, il diritto indica la direzione ma poi la questione è come faccio camminare la persona per arrivare a quel punto. A volte ci vogliono anni, ci vuole pazienza.
Lei è stato Rettore della Pontificia Università Gregoriana. C’è un aspetto, in relazione al funzionamento di questi istituti, su cui, secondo lei, sarebbe necessario un aggiustamento?
Lì entra in campo la coscienza di dover trasmettere non semplicemente dei contenuti ma di trasmettere una formazione. Se una istituzione accademica non ha spiritualità – per spiritualità io intendo un modo concreto di porre sé stessi in relazione a Dio, a se stessi, agli altri e al mondo – non si dà l’essenziale alla persona, non si realizza il fine.
Tornando ai temi della compartecipazione, come sta guardando al cammino sinodale della Chiesa?
Io spero che si arrivi a qualcosa di concreto e penso che si sta cercando di farlo. Certo, sono da trovare delle vie. Effettivamente l’impostazione della sinodalità data da Papa Francesco è veramente onnicomprensiva, e amplia. Prima si identificava sinodalità con collegialità, adesso invece il Papa la mette sullo sfondo della natura stessa della Chiesa e coinvolge a tutti i livelli. Per poter man mano entrare in questa prospettiva e in maniera attuativa, io ritengo che ci vorrà un po’ di tempo, sia per un cambio di mentalità e anche per trovare i modi concreti di attuazione. Dalla teoria si deve passare alla sperimentazione. Questa richiede umiltà. La prospettiva del Papa io la condivido pienamente, la trovo valida perché mette in moto nella Chiesa una corresponsabilità: ognuno coi propri ruoli. Non significa infatti che il vescovo non fa più il vescovo o che il laico fa il vescovo: ognuno deve realizzare la propria vocazione. Corresponsabilità vuol dire assumere la propria responsabilità di fronte alla vita della Chiesa e alla sua missione. È una macchina grossa che viene messa in moto.
La tutela dei minori è uno degli ambiti su cui anche la Cei, con la sua nuova guida, il cardinal Zuppi, vuole insistere. Come valuta questo intento? E sulla formazione del clero, cosa è più urgente oggi a suo avviso?
Certamente, se si sono verificati i casi è perché è mancato qualcosa anche nella formazione: non è forse stata attenta, non ha saputo cogliere delle carenze o delle deficienze o delle anomalie e ha portato forse ugualmente avanti delle persone che non avrebbe dovuto portare avanti. Oppure c’è stata una formazione massiva, superficiale dove è mancato il contatto diretto tra i formatori e i formandi. Faccio solo delle ipotesi… Ora, la Chiesa prende coscienza di questo e certamente ne fa fronte perché non si ripeta. Il peccato non potrà mai essere totalmente eliminato, perché purtroppo siamo tutti figli di Adamo ed Eva, però la Chiesa sta facendo dei grandi sforzi. Un altro punto che per me dovrebbe entrare nella formazione in maniera più chiara e decisa è l’aspetto della missionarietà – di cui si diceva – su cui Papa Francesco ha insistito fin dall’Evangelii gaudium e ora con la Praedicate Evangelium. Dovrebbe coinvolgere soprattutto i chierici che si preparano all’annuncio del Vangelo. Ma in che maniera? Si preparano all’annuncio del Vangelo o alla missionarietà dell’annuncio del Vangelo?
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