Juan Carlos Cruz: gli abusi cancro nella Chiesa. Molti passi avanti rispetto al passato
Salvatore Cernuzio - Città del Vaticano
“Credo che sia importante, tremendamente importante che si inizi a dare ascolto alle vittime, perché tante volte la Chiesa ha ignorato le vittime oppure venivano considerate nemiche della Chiesa solo perché avevano raccontato la tragedia vissuta. Questo ora sembra essere terminato…”. Per Juan Carlos Cruz, vittima di abusi da adolescente, la Conferenza per la tutela dei minori che prenderà il via domenica a Varsavia, non è solo un notevole risultato della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori di cui il Papa l’ha nominato membro nel marzo scorso, ma anche un traguardo personale. Cileno ma statunitense d’adozione, anche scrittore e giornalista, ha subito da ragazzo ripetute violenze da parte di padre Fernando Karadima, il sacerdote (scomparso a luglio 2021, ndr) che il Papa aveva dimesso dallo stato clericale nel 2018 per i continui e accertati abusi contro minori e seminaristi.
L’abbraccio del Papa
La storia di Juan Carlos, Francesco l’ha conosciuta in ogni dettaglio dopo averlo ricevuto a Santa Marta, pochi mesi dopo il viaggio in Cile e Perù del gennaio 2018, insieme ad altre due vittime, James Hamilton e José Andrés Murillo, in un incontro che tutti e tre hanno definito “lungo e commovente”. È proprio da quell’“abbraccio con il Santo Padre” che Juan Carlos dice di essersi riconciliato con una Chiesa che prima considerava come il “male assoluto”, non solo per gli abusi subiti, ma anche per un sistema di insabbiamenti con cui spesso si è scontrato. Parlando con Pope nella sede della Commissione pontificia alla vigilia dell’evento di Varsavia al quale parteciperà come relatore, Cruz continua a dirsi profondamente grato al Papa per il suo “affetto” e anche perché “per merito suo, il problema degli abusi è divenuta un’urgenza”.
Juan Carlos, in mezzo a vescovi, sacerdoti, esperti laici, a Varsavia risuonerà anche la sua voce, quella di una vittima di abusi. Quale tipo di contributo pensa di portare?
Voglio, anzi, spero di sottoporre all’attenzione di tutti il punto di vista dei sopravvissuti di ogni parte del mondo, con i quali sono in contatto ormai da anni tramite organizzazioni o personalmente. Persone buone e intelligenti, molte delle quali però ancora oggi soffrono tantissimo. Sento che questo è il mio lavoro anche qui nella Commissione in cui Papa Francesco mi ha dato l'onore di nominarmi: inserire costantemente il punto di vista dei sopravvissuti e ricordare cosa e quanto stiamo facendo per le vittime. In altre parole, instillare urgenza, responsabilità e portare - si spera - a conseguenze concrete nelle Chiese locali perché il lavoro è grande e c’è ancora molto da fare. Posso dire che rimango quotidianamente impressionato dai membri della Pontificia Commissione, gente molto preparata, in gamba. E rimango impressionato dal fatto che il Papa sia così attento a questo tema. L’ho sperimentato personalmente con la sua vicinanza e il suo affetto. Mi preoccupa, invece, che ci siano ancora vescovi che non credono e non vedono l’urgenza di questo problema. L’esempio che sempre faccio è che quello degli abusi è come un tumore: te lo tolgono ma devi fare comunque una chemioterapia, altrimenti il cancro ritorna. Se non lo si elimina una volta per tutte, diventa un problema costante. Spero, allora – ripeto -, di poter dare questa visione che è la visione delle vittime e di tutti quelli che stanno ancora soffrendo molto.
La Conferenza si terrà a Varsavia. C'è qualche differenza, secondo lei, nel modo di lottare e portare avanti le proprie istanze da parte dei sopravvissuti in questa parte dell'Europa?
Penso che i sopravvissuti abbiano bisogno di ulteriore coraggio ovunque, non solo nell’Europa dell’Est e del Centro. Alcuni luoghi, certamente, hanno situazioni che potrebbero rendere tutto più difficile. Basti pensare ai sopravvissuti in Uganda, per esempio, dove l’omosessualità è penalizzata, per cui o muoiono o vanno in prigione. Ho incontrato pure sopravvissuti che non sono omosessuali ma che hanno paura di dire che sono stati abusati da un prete perché la gente potrebbe dire: “Allora sei omosessuale” e potrebbero anche morire. Pensate a quanto sia orribile… Sicuramente è vero che ci sono dei fattori che influenzano i diversi Paesi e rendono ancora più difficile per le vittime raccontare le proprie storie.
Quali sono le sue speranze per quest’area dell’Europa dopo l’evento di Varsavia?
In realtà non è la prima volta che vado a Varsavia a parlare di abusi. Molti anni fa ho avuto la fortuna di parlare con alcuni sopravvissuti, in un incontro organizzato da loro stessi. Non dalla Chiesa. Ricordo che è stato un incontro informale, confidenziale, fatto in un luogo pubblico molto frenetico. Pensavo che nessuno sarebbe venuto, invece erano presenti un centinaio di persone, nonostante molti fossero ancora spaventati. Sono, perciò, contento che ora nella stessa città ci sia questo cambio di passo, che le persone possano vedere che è la Chiesa ad organizzare una conferenza del genere. Spero soprattutto che questo diventi una realtà anche in altri Paesi, specie quelli dove i vescovi pensano: “Questo è un problema che riguarda un altro posto”. No, la piaga degli abusi è ovunque e dobbiamo essere vigili, aiutare le vittime, credere in loro, dargli una mano, trattarle con la dignità che meritano e ricercare processi adeguati per garantirgli giustizia.
Crede che la Conferenza possa portare a questo tipo di risultati?
Penso che sia davvero importante, soprattutto il fatto che venga sottolineato che trattare i casi di abusi in questo momento è un’emergenza. Se non ci occupiamo di queste problematiche, rimaniamo solo alla punta dell’iceberg. Devo dire pure che, rispetto al passato, molto è stato fatto. Questo è sicuro! E, come ho detto, il merito principale va a Papa Francesco che ha una preoccupazione reale. Mi auguro che la stessa preoccupazione del Papa l'abbia la Chiesa intera.
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