Ruffini: L’Osservatore Romano, giornalismo per la fratellanza
PAOLO RUFFINI
Ci sono sempre due modi di . Uno è quello di rimpiangere il tempo andato. Vivere di ricordi. Guardare indietro con rimpianto e nostalgia. E guardare avanti con paura, vivendo il tempo che passa come la condanna ad assistere ad una inevitabile consunzione delle cose.
L’altro è quello di affacciarsi sul futuro con l’urgenza delle cose da fare più che con l’appagamento di quelle già fatte, dei cammini da percorrere più che di quelli già percorsi. Non per cancellare il passato, semmai il contrario, per non sottrargli la spinta al cambiamento che sempre lo caratterizza, e che lo fa appunto passare. Per non rimanerne intrappolati. Per trarne linfa e dinamismo.
Vale anche per l’Osservatore Romano, il più antico dei media della Santa Sede, di cui celebriamo i 160 anni. Un traguardo importante, come si dice in gergo. Ma anche il gergo tradisce. Perché traguardo indica un punto di arrivo, la fine di un percorso. E non è questo il caso. Ma è proprio questo il punto.
Per celebrare davvero un anniversario bisogna festeggiare una nuova partenza, un nuovo inizio; non un arrivo. Fare il punto di una navigazione che continua. Guardare i segni dei tempi. Gettare l’ancora sì, ma nel futuro, non nel passato. Porsi le giuste domande. E trovare le giuste risposte, risposte aperte, non chiuse.
A cosa serve un giornale? A cosa serve oggi; e a cosa servirà domani un giornale come l’Osservatore Romano? In che modo si integra e si integrerà nell’era digitale, che è la realtà del nostro tempo? Se le domande sono queste, quali sono le risposte? Nel nostro mondo, frammentato e globalizzato allo stesso tempo, le società si fondano sui media. I media sono un mezzo potente di relazione, di dialogo, di confronto fra le persone. Sono uno spazio reale dove agiamo come uomini pubblici. Creano identità. Creano comunità. Collegano in rete individui sempre più soli.
Ma possono anche tradire sé stessi, riducendo tutto allo zero assoluto di una connessione senza comunicazione, di una parola che diviene urlo e nega l’ascolto. Possono diventare una trappola dove le persone, pensando di esistere solo se si esibiscono in un gioco dove si può solo perdere, finiscono con il lo smarririsi; imprigionate in un labirinto, una ragnatela invece di una rete.
I media hanno un enorme potere. Parlano a una folla immensa. Rischiano di credersi Dio. Tutto questo ci sfida a essere (o non essere) punto di riferimento verso l’alto. A fare un giornale al passo con i tempi, di rinnovare i nostri linguaggi, di accettare la sfida senza perdere la nostra anima. Un giornale come il nostro non potrà mai essere forma senza contenuto. Ecco la ragione per cui esistiamo. Offrire uno sguardo cristiano. Illuminare la realtà con questo sguardo che la trascende. Non per imporre un pensiero. Ma per stimolarlo. Nel dialogo. Nel confronto. In un cammino che continua, al servizio del successore di Pietro.
In una delle sue più belle canzoni, Leonard Cohen, che prima di essere un cantautore è stato un poeta; e che come molti poeti riusciva a vedere e descrivere le cose al di là dell’apparenza, ha scritto un distico che potrebbe essere l’icona della nostra frontiera comunicativa in questo nostro tempo così diviso, frantumato. “C’è una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce”. Ecco il nostro modo di vedere le spaccature, provando a camminarci dentro: vedere la luce che le attraversa.
Come ha detto il Papa nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2020, “anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio”. Senza la capacità di ricondurre l’esperienza ad unità, senza una prospettiva, tutto si appiattisce; non c’è sapienza, e nemmeno conoscenza; tutto si riduce ad una elencazione senza senso, ad un polverone confuso di dettagli, una anarchia di briciole.
A questo serve un giornale. A questo servono i media. A offrire una prospettiva. In anni in cui il futuro della comunicazione rischia di andare in direzione di una progressiva perdita di rapporto con la realtà, e con il suo creatore; costruendosi un universo autoreferenziale, ipnotico, infantile noi abbiamo il dovere di seguire una strada completamente diversa.
Ci si potrà domandare come? In che modo?
Se guardiamo ai mezzi che la tecnologia mette a nostra disposizione, il futuro dell’Osservatore Romano sta nella sua reale universalità, esaltata oggi dal suo essere integrato in un universo più ampio, sta nella sua apertura al mondo. Sta nella possibilità di essere stampato ovunque, laddove questo è necessario. Sta nella possibilità di costruire una vera comunità di lettori e di scrittori, uniti dalla stessa missione dovunque nel mondo siano. E di farlo in comunione con la Radio, con Pope, con i social. Tanti carismi, tante lingue, una sola missione. Oggi più che mai è tempo per la Chiesa di uscire dalle sue mura, di non pensare statico ma dinamico.
Solo così, rinforzando il nostro essere rete e in rete, possiamo essere punto di riferimento, sale, lievito e gestire il conflitto potenziale fra libertà e responsabilità. Possiamo avviare processi, favorire la costruzione di una rete di reti fondate su un modo diverso, cristiano, di vivere l’era della comunicazione. Ma se guardiamo al fine, il fine del nostro lavoro è complicato proprio perché non è strumentale. Ed è bello perché è missionario. Non è prestabilito, è aperto. Se guardiamo indietro, come Chiesa abbiamo commesso errori, anche nella comunicazione.
Ci siamo illusi che la testimonianza potesse essere separata dalla verità e dalla trasparenza; che un velo pietoso fosse meglio di una dolorosa presa d’atto e purificazione. Abbiamo fatto nostri per pigrizia paradigmi antitetici al Vangelo. Abbiamo ceduto e cediamo a volte alla logica del nemico, e a quella del capro espiatorio. Ci siamo illusi anche che la strada per essere ascoltati potesse essere quella più facile, più superficiale. Eppure – di fronte alla sempre maggiore insignificanza del pensiero unico, del pensiero omologato— sperimentiamo ogni giorno la verità aperta del messaggio evangelico. E la nostra potenziale capacità di essere davvero liberi, di porre domande, di non essere rassegnati o acquiescenti.
Qui è la risposta del perché di un giornale, e della nostra comunicazione attraverso tutti i mezzi che il tempo mette a nostra disposizione. Per riportare le persone alla verità dell’incontro.
Qui è il senso di celebrare gli anniversari gettando il cuore oltre l’ostacolo, l’àncora in un’altra dimensione del tempo. «Se perdiamo questa prospettiva – ha detto Papa Francesco – la vita diventa statica e le cose che non si muovono si corromperanno». Sperare è come gettare l’ancora sull’altra sponda. Altrimenti anche la comunicazione finisce con l’essere autoreferenziale, incapace di aprirsi alla novità di Dio.
La comunicazione è un flusso dinamico. Deve scorrere, come l’acqua. Deve sperare che le cose cambino. Lavorare perché le cose cambino. Aprire non chiudere. A questo serve un giornale. Questo è lo sguardo cristiano sulla comunicazione.
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