Una grande storia di giornalismo cattolico
di Valerio De Cesaris
La è un’operazione culturale di rilievo, che rende fruibile a tutti un patrimonio immenso di testi, immagini, riflessioni. È una finestra che si apre sulla storia della Chiesa del Novecento, ma anche sulle vicende della società italiana e del mondo. Il settimanale nacque nel 1934 come «L’Osservatore Romano della Domenica» (avrebbe perso il “romano†nel 1951) e servì inizialmente a dotare la stampa vaticana di un organo più libero dalla pressione fascista, in un tempo di dittatura in cui l’«Osservatore Romano», considerato la voce del Papa, era oggetto delle scomode attenzioni del regime (ne fu un esempio l’arresto di Guido Gonella, estensore sul quotidiano vaticano dei celebri Acta diurna, tradotto in carcere nel settembre 1939 proprio per i suoi articoli invisi al regime e liberato solo dopo il diretto intervento di Pio XII).
Il settimanale, più smarcato dall’ufficialità vaticana, aveva una relativa libertà, tanto che pubblicò spesso pezzi non allineati all’ideologia fascista, o anche apertamente critici. Così, ad esempio, in tempo di politiche antisemite bollò come eretica la posizione di chi negava l’ebraicità di Gesù volendo recidere il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo (Un’eresia d’attualità, 24 luglio 1938) e confutò senza mezzi termini le teorie ariane (Gli “Ariani†e il loro “inventoreâ€, 16 ottobre 1938). Al settimanale lavoravano alcuni giornalisti antifascisti — Renzo Enrico De Sanctis, Guido Gonella, Igino Giordani — e altri che erano su posizioni più velate ma pur sempre critiche rispetto al regime mussoliniano, come Federico Alessandrini e lo stesso direttore del quotidiano vaticano, Giuseppe Dalla Torre. Negli anni Trenta e ancor più in tempo di guerra, la stampa vaticana divenne un punto di riferimento per tanti italiani, assetati di notizie oggettive, di fronte a una stampa di regime che non andava oltre la propaganda: l’«Osservatore Romano» raggiunse picchi di vendita considerevoli, mai raggiunti prima, mentre gli squadristi tentavano d’impedirne la diffusione bruciando le edicole in cui era venduto e minacciando chi lo acquistava. «L’Osservatore Romano della Domenica» ebbe, in quel tempo, soprattutto la funzione di pubblicare interventi che se apparsi sul quotidiano avrebbero provocato rappresaglie, come gli articoli contro il paganesimo nazista, il riarmo e il bellicismo.
Nel dopoguerra il settimanale entrò in una nuova, lunga stagione della sua vita, con la direzione di Enrico Zuppi, dal gennaio 1947 al luglio 1979. Con la passione e la creatività che lo caratterizzavano, Zuppi diede fin da subito al giornale la sua impronta, nel segno della modernizzazione e dell’apertura a tematiche nuove e a collaborazioni con personalità del mondo della cultura, non soltanto di quella cattolica.
Romano, legato da giovanissimo alla parrocchia di Sant’Eustachio animata da don Pirro Scavizzi, Zuppi era stato negli anni Venti tra i “fucini†che un giovane don Giovanni Battista Montini accompagnava in un’opera di carità tra i poveri che vivevano «nell’ambiente desolato socialmente e moralmente disfatto delle casette di Porta Metronia», come ricordò molti anni più tardi lo stesso Zuppi.
Trasferitosi a Milano, egli compì i primi passi della sua attività giornalistica ed entrò a far parte della Compagnia di San Paolo, per avere in seguito un ruolo nella fondazione della Pro Civitate Christiana di Assisi. Tornato a Roma nell’immediato dopoguerra, lavorò dapprima nell’ufficio stampa della Pontificia Commissione di Assistenza, guidata da monsignor Ferdinando Baldelli, e poi per la stampa vaticana, dove lo volle monsignor Montini, divenuto nel frattempo sostituto della Segreteria di Stato.
Il settimanale vaticano andava rinnovato, perché si apriva una stagione diversa: gli accesi dibattiti del dopoguerra si giocavano tutti sulla stampa e c’erano questioni nuove su cui confrontarsi, dal problema della ricostruzione al ruolo della Chiesa nell’Italia postfascista e democratica.
Nel momento in cui assunse la guida dell’«Osservatore Romano della Domenica», Zuppi ereditò un giornale di 8 pagine, redatto con uno stile agile ma ancora perlopiù limitato alla vita religiosa italiana. Le notizie dal mondo erano scarse. La politica era relegata in uno spazio minore, sebbene durante il periodo bellico il settimanale avesse pubblicato qualche pezzo importante. Mentre nel 1934 il giornale era stato dotato di un paginone centrale illustrato, nel quale venivano concentrate tutte le fotografie del numero, nel 1947 le fotografie erano distribuite in ogni pagina e il formato era già più articolato. Zuppi impresse una rapida e incisiva accelerazione alla modernizzazione del giornale, valorizzando la fotografia, che era per lui una vera passione comunicativa. «Prima di leggere, il giornale si vede», amava ripetere. Molti scatti erano opera dello stesso Zuppi — alcuni sono qui riprodotti —, che riuscì a dare all’«Osservatore della Domenica» un taglio innovativo: la ricchezza delle fotografie e della grafica del settimanale vaticano divenne di gran lunga superiore a quanto si poteva trovare in quel tempo su altri organi di stampa cattolici. Al contempo, il giornale si aprì al mondo, con reportage da vari paesi, e diventò uno spazio di confronto culturale di alto livello.
Da vero «ingegnere della notizia», come lo definiva Raimondo Manzini, Zuppi curava nel dettaglio ogni numero, commissionando gli articoli con attenzione e cercando di coinvolgere firme autorevoli. Ottenne la collaborazione al giornale di personalità del calibro di Piero Bargellini, Giuseppe De Luca, Pirro Scavizzi, Benvenuto Matteucci, Adriana Zarri, e ricevette contributi da molti altri, come Françoise Mauriac, Jacques Maritain, Daniel—Rops, don Primo Mazzolari, padre Davide Maria Turoldo, Giuseppe Prezzolini, con il quale visse una lunga amicizia personale, o Eduardo De Filippo, che scrisse per il settimanale un articolo in occasione del viaggio di Paolo VI in Asia nel dicembre 1970. Era difficile dire di no a Enrico Zuppi, capace di una spontaneità dell’amicizia che colpiva. «Caro amico — gli scrive Eduardo De Filippo in occasione di quella collaborazione — la ringrazio della lettera… ma soprattutto dell’amicizia, della fiducia, della simpatia».
Amicizia e simpatia che Zuppi non lesinava a chi, giovane e alle prime armi, iniziava a collaborare con il suo giornale. Nel 1960 raccomandava a Giancarlo Zizola, ventiquattrenne, che aveva appena iniziato a scrivere per «L’Osservatore della Domenica»: «Voglio che intensifichi la sua collaborazione. Ha capito bene quello che voglio: i suoi ultimi due articoli — per quanto giunti in ritardo — li ho pubblicati con vero piacere. Continui a battere la medesima strada: articoli asciutti, pieni di fatti, con il mordente della cronaca… Misuri bene quello che scrive: tutto può provocare grane. Spuntarelli polemici, delicatissimi, non mi spiacerebbero».
Nel corso del primo periodo della direzione Zuppi, «L’Osservatore della Domenica» preparò in qualche modo il terreno alle aperture di Giovanni XXIII, affrontando e sviluppando sistematicamente i problemi della riforma della Chiesa, in campi come quello dell’apostolato dei laici, del dialogo ecumenico, del riconoscimento dei valori umanistici in azione nella società, al di là degli steccati, di una più aggiornata dottrina sociale della Chiesa, in particolare sui temi della pace e della guerra. In tal modo il settimanale, sempre attento ai fermenti vivi della cultura cristiana, contribuì a una rinascita culturale del cattolicesimo italiano, sostenendo attraverso l’approfondimento giornalistico le istanze di riforma poi confluite nel Concilio Vaticano II. Scorrendo i numeri di quegli anni ci si accorge di come «L’Osservatore della Domenica» fosse diventato una vera palestra del giornalismo libero e responsabile nella Chiesa.
Nel post-Concilio, il giornale visse la sfida di comunicare i temi e i messaggi della Chiesa conciliare. Enrico Zuppi era consapevole che il Concilio Vaticano II sarebbe arrivato al mondo cattolico in maniera diversa rispetto ai concili precedenti, recepiti attraverso i vescovi, i sinodi e gli altri canali istituzionali. Il Vaticano II arrivava invece al popolo cattolico prima di tutto attraverso i messaggi e le immagini della stampa. È da leggere in tal senso la brillante operazione editoriale che Zuppi promosse al termine del Concilio per la pubblicazione di un numero speciale di ben 226 pagine sul Vaticano ii, pubblicato nel 1966, ricco di firme illustri e fotografie, presentato come un «atto di amore alla Chiesa del Concilio» e poi tradotto e pubblicato anche in spagnolo, inglese, francese e tedesco. Fu la prima pubblicazione di spessore apparsa sul concilio. «Non possiamo concludere questo numero unico — scrisse Zuppi in ultima pagina, chiudendo il fascicolo — senza esprimere l’intima soddisfazione d’aver, in qualche modo, collaborato ad un avvenimento così grande ed eccezionale nella vita della Chiesa e per il mondo intero come quello del Concilio Vaticano ii… Speriamo che la presente pubblicazione valga a far conoscere meglio il Vaticano ii e a far amare ancora di più la Chiesa che esso ha rinnovato e riformato. Pensiamo, se non presumiamo troppo, d’aver attuato, seppure in minima parte e in infimo ordine, il nostro impegno di laici più volte affermato dal Concilio ed in modo particolare dal Decreto sopra i mezzi di comunicazione sociale».
All’interno del fascicolo, la sezione Il dialogo continua, con interventi di intellettuali laici e cristiani non cattolici — tra cui Oscar Cullman, Michael Ramsey, Giuseppe Prezzolini, René Remond, Giovanni Spadolini, Giuseppe Ungaretti — mostrava la consapevolezza del ruolo che il giornalismo poteva avere, nel favorire l’attuazione di quel rinnovamento che sgorgava dai documenti conciliari.
Navigando nell’archivio ora disponibile online dell’«Osservatore della Domenica» si scopre, nella ricchezza del materiale che s’incontra, anche la personalità di Enrico Zuppi, un uomo profondamente fedele alla Chiesa e alla Santa Sede, e al tempo stesso pienamente libero e intimamente laico. Capace di vivere nella libertà la responsabilità di un laico cattolico, che trovava nel Concilio Vaticano II la conferma a un lavoro nei media inteso come apostolato. Con la simpatia che era suo tratto umano, l’immediatezza dell’amicizia e la spontaneità, e con una dedizione quotidiana al giornale (la sua «settima creatura», come lo definiva scherzosamente avendo sei figli).
Quando Enrico Zuppi andò in pensione, nel luglio 1979, «L’Osservatore della Domenica», anche per motivi economici, cessò di esistere come giornale autonomo e diventò un inserto, molto ridotto, dell’«Osservatore Romano». Finiva una grande storia di giornalismo, con la chiusura di un giornale di cui Zuppi era stato direttore e redattore, fotografo, impaginatore, anima. Il suo commiato, scritto con l’originalità e la fantasia di sempre, fu rivolto ai lettori, con i quali aveva stabilito negli anni un vero dialogo d’amicizia: «Ho voluto in questo numero del mio commiato proporre una ennesima meditazione su Gesù. L’ho fatto sia perché la so gradita ai lettori e sia perché spinto da un ingenuo desiderio, reso in questa mia età autunnale, quasi assillante. Vorrei cioè concludere il mio “servizio†con una promozione (e tutti sono impegnati a perorarne la causa anche se essa non è contemplata dai regolamenti di quaggiù). È quella di passare — quando e come Dio vorrà — da osservatore occasionale — sovente distratto e tiepido — a osservatore permanente, in servizio effettivo, senza limiti di pensionamento, lassù, nella contemplazione del Suo volto… Ai lettori non dispiaccia se nel mio commiato da loro, scartando le usuali parole di convenienza, auguro tanta incomparabile promozione, ora nutrita nella speranza, allorché verrà anche per loro la stagione dell’autunno».
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