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Sinodo, Herbas (Bolivia): in Amazzonia riscoprire lo spirito missionario

Mons. Herbas Balderrama vescovo di Aiquile, una delle diocesi più povere del Paese: ci mancano anche i sacerdoti. Un prete percorre anche mille chilometri per visitare una sola parrocchia

Federico Piana – Città del Vaticano

In Bolivia una delle diocesi più povere in assoluto è Aiquile. Si estende su un territorio immenso di 23 mila chilometri quadrati sul quale insiste una popolazione di poco meno di 300 mila abitanti, quanti quelli di una piccola cittadina italiana. La cultura di riferimento è legata ai Quechua, popolo indigeno strutturato in comunità e impegnato soprattutto nelle attività agricole. La diocesi di Aiquile ha anche cinque parrocchie nella zona amazzonica tropicale del dipartimento di Cochabamba. Il suo vescovo, monsignor Jorge Herbas Balderrama, partecipa ai lavori del Sinodo sull’Amazzonia e non si vergogna di raccontare che la povertà nella quale è da sempre immersa la sua gente non è solo economica: “Ci mancano anche sacerdoti. In tutto sono 24, tra i quali 5 Fidei Donum polacchi…”. Davvero pochi se si considera l’estensione ciclopica di Aiquile: la distanza media di una parrocchia è di 500 chilometri. Tra andata e ritorno, un solo prete percorre la bellezza di 1000 chilometri, alcune volte anche in un solo giorno.

Al Sinodo si sta discutendo di una nuova missionarietà per l’Amazzonia. Secondo lei, quali caratteristiche dovrebbe avere?

R. - Tutta la Chiesa deve fare una conversione missionaria. Tutti noi dobbiamo domandarci se abbiamo uno spirito missionario e la voglia di dedicare la nostra vita ai poveri. Purtroppo, nei più giovani non vediamo il senso missionario che dovrebbe spingerli a diffondere il Vangelo alle persone più lontane. Riscoprire e far riscoprire la missionarietà deve essere un impegno di ognuno di noi. Intanto, bisogna ovviamente ripartire da una formazione che punti anche a far nascere e crescere delle vocazioni locali.

L’inculturazione del Vangelo, della teologia e della liturgia potrebbe essere una delle soluzioni possibili?

R. - Ovviamente dei passi in questo senso si stanno già facendo. Non è una cosa nuova. Guardando la storia, sono stati i missionari che nel passato hanno strutturato le lingue indigene per permettere la traduzione di libri e dizionari. L’inculturazione è una cosa viva. Ad esempio, io sono di origine Quechua e uso la lingua indigena in tutte le celebrazioni, quando posso. E allora, anche i missionari che vengono da noi devono imparare la lingua Quechua, questo avvicina molto le persone.

Si sta discutendo anche della creazione di un organismo internazionale in difesa delle popolazioni indigene…

R. - E’ una proposta molto interessante, anzi direi una necessità. Dal Sinodo è emersa questa richiesta. La nascita di un tale organismo renderebbe ancor più concrete le nostre battaglie sul fronte ecologico, della difesa dei diritti umani, della salvaguardia delle popolazioni indigene. Vorrebbe dire portare all’attenzione internazionale le nostre problematiche e far affermare delle soluzioni condivise.

Ascolta l'intervista a mons. Herbas

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17 ottobre 2019, 14:08