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Sinodo, Divassón Cilveti (Venezuela): alleanza tra Chiesa e popoli indigeni

L’ex vicario apostolico di Puerto Ayacucho: le comunità locali devono prendere in mano il proprio destino, anche ecclesiale. Inculturare teologia e liturgia affinché possano esprimere con il loro stile il messaggio di Gesù

Federico Piana – Città del Vaticano

E’ davvero possibile un’alleanza tra Chiesa e popoli indigeni dell’Amazzonia? Alla domanda, riecheggiata anche nell’Aula del Sinodo, monsignor José Ángel Divassón Cilveti, già vicario apostolico di Puerto Ayacucho in Venezuela, fa prima brillare gli occhi profondi e saggi, poi sfodera un grande sorriso: “Guardi, è già una realtà. Ho sentito spesso molti indigeni dirmi: la Chiesa è nostra alleata. Sono loro i protagonisti. Noi siamo i loro alleati, talvolta critici, ma sempre loro alleati” risponde con sicurezza il prelato, da più di sessant’anni accanto alla popolazione degli Yanomami, nella foresta amazzonica venezuelana. “Loro sono autonomi ma sanno che possono contare sul nostro sostegno in qualsiasi momento…”.

Come aiutare concretamente queste popolazioni che sono disperse in piccoli gruppi su territori vastissimi?

R. - Dobbiamo puntare sulla formazione delle persone. Sono loro il futuro della propria popolazione. Si devono concentrare tutte le forze per far in modo che ogni indigeno si faccia carico della vita sociale ed ecclesiale, che la prenda in mano sul serio.

Nel Sinodo si sta prendendo in considerazione la possibilità di modificare l’insegnamento nei seminari…

R. - Il cambiamento è sempre presente. Ciò che si deve fare è dare più rilievo alla vita dei seminaristi: sono preti per tutti non per una sola zona del mondo. Bisogna anche mettere in evidenza il fatto che se si è inviati in zone come quelle amazzoniche vuol dire che lo sforzo richiesto ai futuri sacerdoti sarà molto grande: imparare le lingue, condividere la propria vita con gli indigeni in un serrato dialogo interculturale. Questo vuol dire preparare bene, impostare un altro paradigma.

I padri sinodali hanno parlato anche di uno sviluppo della teologia indigena. Cosa si intende veramente?

R. - Vuol dire prima di tutto conoscere le loro credenze per poi illuminarli con la luce del Vangelo. E’ necessario studiare come i popoli indigeni vivono il proprio rapporto con il trascendente leggendolo però con la lente di Gesù Cristo. Tutto questo, sistematizzato, si chiama teologia indigena.

Che poi potrebbe condurre anche ad una liturgia indigena?

R. - La liturgia è unica. Però si possono introdurre molte varianti. Ad esempio un atto penitenziale lo potremmo fare con uno stile indigeno: nelle loro usanze esiste un bel modo di chiedere perdono. Certamente, ciascuno non può fare come vuole ma una comunità che riflette trova delle soluzioni che possano essere utili affinché anche loro possano esprimere, con il loro stile, l’accettazione di Gesù.

Ascolta l'intervista a mons. Cilveti

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15 ottobre 2019, 13:41