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Sinodo, padre Bossi (Brasile): un messaggio che arriverà lontano

“Il Sinodo inizia domenica in Amazzonia” ci dice il provinciale dei Comboniani in Brasile, padre Dario Bossi, convinto che bisogna fare in modo “che la nostra Chiesa abbia un volto amazzonico ma anche una partecipazione piena nella Chiesa universale”, e continui a denunciare “un modello economico predatorio”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

“Il Sinodo non si chiude, ma inizia davvero domenica, quando avremo la sfida di riportare, grazie anche all’Esortazione apostolica di Papa Francesco, un messaggio chiaro e ricostruirlo e consolidarlo nelle nostre terre dell’Amazzonia”. Padre Dario Bossi, superiore provinciale dei Missionari Comboniani del Brasile, 47 enne originario di Samarate, provincia di Varese, al Sinodo è stato relatore del circolo minore italiano “A”. Nella città di Açailândia, nel Maranhão, dove svolge la sua missione tra i 104 mila abitanti, è arrivato 12 anni fa, dopo 6 passati a Padova e altri 4 a San Paolo per aiutare i ragazzi difficili. Insieme agli abitanti delle 100 comunità in tutto che vivono al fianco della ferrovia, padre Bossi ha ingaggiato sette anni fa una battaglia contro il progetto, ad alto rischio ambientale, della compagnia mineraria Vale che intendeva raddoppiare la ferrovia che attraversa lo stato amazzonico del Parà, e oggi sostiene la comunità del quartiere Piquia de Baixo nella sua battaglia contro l’inquinamento causato dagli altoforni senza filtri dove viene lavorato il "pig iron", il ferro dei porci, come coordinatore della rete interecclesiale “Iglesias y mineria”. Con lui parliamo però dei frutti che porterà questo Sinodo che si chiude a Roma, ma prosegue in Amazzonia.

Ascolta l'intervista a padre Dario Bossi

R. – Questo Sinodo ci porta la ricchezza, ma anche la sfida, di una Chiesa sempre più plurale nella sua costituzione e allo stesso tempo che si sforza e cammina in uno spirito di unità. Ci stiamo chiedendo come fare in modo che la Chiesa abbia allo stesso tempo un volto amazzonico e una pienezza di partecipazione, naturalmente nella Chiesa universale. Questo non è sempre facile, però vediamo che gli spazi lasciati ai popoli indigeni, alle donne e all’appello della Madre Terra che ci viene dall’Amazzonia sono spazi che stanno aprendo porte nuove, perché la Chiesa si apra a queste sfide nuove.

La Chiesa in Amazzonia fa già molto per i diritti degli indigeni, anche attraverso la Repam, attraverso Iglesias y Minería: si cercheranno altri strumenti per essere ancora più voce di chi non ha voce, dal punto di vista dell’ecologia integrale?

R. – Sicuramente il grido dell’Amazzonia è uno dei gridi più urgenti per il pianeta intero, non solo per le nostre regioni, ed è un grido che denuncia il modello economico che nessuno sopporta più, come dice Papa Francesco. E’ un modello che quando assolutizza il profitto e riduce la natura e la creazione semplicemente a una offerta di commodities, di beni da sfruttare è destinato a morire e a uccidere. Per cui, il Sinodo credo che ci rilanci con maggior precisione, maggior competenza e chiarezza anche ecclesiale sul ruolo che abbiamo – pastoralmente, teologicamente e istituzionalmente – per difendere la vita nel nostro pianeta. Evangelizzare e rendere presente il regno di Dio sulla terra, dice Papa Francesco: il regno di Dio è un regno di giustizia, di pace, di relazioni integrali con la Creazione. E’ questo che il Sinodo ci spinge a riproporre quando torneremo nelle nostre terre amazzoniche.

Per favorire una maggiore presenza dell’Eucaristia nelle comunità anche più distanti, quali soluzioni si stanno cercando?

R. – La celebrazione eucaristica è il cuore, è il cardine della costruzione di una comunità. E’ un diritto che non possiamo negare e che pesa ai vescovi e ai padri dell’Amazzonia per il fatto che abbiamo coscienza che la nostra presenza è molto superficiale, in molte comunità. Si è detto: è una pastorale di visita molto estemporanea. Il cuore della comunità è composto da laici e laiche che la vivono costantemente e che hanno, in parecchi casi, la maturità della fede e la maturità umana per potersi rendere protagonisti della celebrazione e della vita. Per questo io credo che nello specifico della vita amazzonica, la possibilità di offrire l’ordinazione a persone di quelle comunità – sia che siano celibi, sia che siano sposati – è “una”, non “la” soluzione, non la panacea, ma è una delle possibilità che soprattutto mostra e valorizza il protagonismo di una comunità accompagnata sempre, naturalmente, dai missionari, dai sacerdoti e dai vescovi che la visitano e che si curano della sua formazione e della sua inclusione, della sua relazione con il resto della Chiesa. Però, mi sembra che sia un riconoscimento importante del valore dell’Eucaristia e della capacità inculturata che hanno le comunità di viverla fino in fondo.

Come parlerà di questo Sinodo alla sua comunità di Açailândia? Le attese e le speranze sono state soddisfatte?

R. – E’ come se dietro a ciascuno di noi ci fosse una fila grande di persone che entrano con noi nella sala sinodale, persone che questo Sinodo vuole ascoltare. Quindi, la primissima aspettativa è che il Sinodo riesca a fare il punto con tutto ciò che è stato detto. E poi, appunto, che non consideriamo che tutto finisce domenica: anzi, tutto inizia domenica, quando avremo la sfida di riportare – e speriamo molto anche nell’Esortazione apostolica di Papa Francesco – un messaggio chiaro e ricostruirlo e consolidarlo nelle nostre terre dell’Amazzonia. Molto di quello che si può fare, tra l’altro, non ha bisogno di attendere il Sinodo: la Chiesa in Amazzonia sta maturando e anche questo processo di ascolto ha messo in evidenza azioni, intuizioni, organizzazioni pastorali che possiamo già, con tutta la legittimità e con tutta la ricchezza, mettere in atto. Quindi, tornare vuol dire rimettere le mani in pasta e mettersi al lavoro con forza e decisione, per costruire la Chiesa che Francesco ci sta chiedendo di promuovere.

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26 ottobre 2019, 08:30