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L'arcivescovo Gualberti Calandrina L'arcivescovo Gualberti Calandrina 

Sinodo. Gualberti Calandrina (Bolivia): serve Chiesa più missionaria

Secondo monsignor Sergio Alfredo Gualberti Calandrina, arcivescovo di Santa Cruz, in Bolivia - tra i partecipanti al Sinodo - la Chiesa deve creare coscienza nell’opinione pubblica sui danni causati dall’agro-business in Amazzonia, ma anche ritrovare la centralità della Parola di Dio e dell’Eucaristia tra quelle popolazioni

Fabio Colagrande - Città del Vaticano

Nel 2015, nel suo viaggio apostolico in Bolivia, Papa Francesco si era augurato che in questa terra “dove lo sfruttamento, l'avidità, i molteplici egoismi e le prospettive settarie” hanno oscurato la storia, potesse arrivare oggi “il tempo dell'integrazione”. Al Sinodo dedicato alla regione panamozzonica, in corso in Vaticano, monsignor Sergio Alfredo Gualberti Calandrina, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra, la città più popolosa della Bolivia, rinnova l’impegno della Chiesa a favorire il dialogo fra le popolazioni indigene, ma anche la coscienza civile sullo sfruttamento e gli abusi subiti dai lavoratori e dalla terra. Ai microfoni di Radio Vaticana Italia, l’arcivescovo Gualberti Calandrina, uno dei quattro membri eletti dall’assemblea nella Commissione per la redazione del documento finale, racconta le sue impressioni sull’andamento dei lavori del Sinodo.

L'intervista a monsignor Sergio Alfredo Gualberti Calandrina

R. – C’è un clima fraterno, questo posso dirlo, anche se ci sono visioni diverse. C’è un clima molto fraterno e soprattutto c’è il desiderio di rispondere alla sfida che rappresenta l’evangelizzazione in Amazzonia e la situazione ambientale e sociale dell’Amazzonia. Il gravissimo problema della regione resta quello delle grandi imprese multinazionali che – spesso con l’accordo dei governi locali – sfruttano il territorio amazzonico in una maniera totalmente esagerata e senza nessun criterio, arrecando un grave danno non solo alla terra ma soprattutto ai popoli indigeni che ci vivono. C’è il desiderio di dare una risposta nuova, una risposta che crei coscienza nell’opinione pubblica mondiale, anche negli organismi mondiali e soprattutto negli Stati, perché si possa frenare questo problema.

Nella sua diocesi in Bolivia lo sfruttamento del territorio è una problematica che si vive concretamente?

R. – Sì, soprattutto perché si vuole ampliare la frontiera agricola. In Bolivia è stato firmato quest’anno un accordo tra il governo e la Cina, per esportare carne: un milione di quintali di carne all’anno. Perciò le aziende hanno bisogno di più terra per poter far crescere le coltivazioni che vanno ad alimentare gli animali. Ed ecco che allora si tagliano gli alberi, si incendia… Quest’anno dal mese di agosto ad oggi, più o meno dalla metà di agosto fino a fine settembre, in Bolivia sono stati bruciati 4 milioni di ettari, praticamente 42 mila chilometri quadrati, un territorio più grande del Lazio. Questo per dare un’idea di quello che accade solo in Bolivia. Tutto questo per motivi economici ma anche politici. Si spostano popolazioni intere dell’Altipiano verso l’oriente boliviano, non per creare un insediamento che poi renda, ma solo per propaganda politica.

Si tratta quindi di un problema di tipo economico, sociale, politico. Ma la Chiesa che ruolo può assumere?

R. – L’unico ruolo che per il momento abbiamo è quello di cercare di creare coscienza. La nostra deve essere una voce che denuncia, una voce profetica che aiuti la gente a riflettere e a prendere coscienza di tutto questo. Ma anche una voce di pace, perché questo spostamento di popolazioni intere che vengono nella zona amazzonica crea conflitti con la popolazione indigena che vive lì e crea tensioni sempre più gravi. Già è difficile a volte la convivenza di popolazioni di una zona con quelle di un’altra. Ora, però, l’incontro tra gruppi indigeni del tipo andino e gruppi indigeni del tipo amazzonico, che appartengono a culture totalmente diverse, sta creando un forte conflitto e noi dobbiamo cercare di evitarlo. Lo ripeto, sono spostamenti di popolazioni fatti solo per motivazioni politiche.  

Come dare un volto nuovo alla Chiesa in Amazzonia?

R. – Credo che l’evangelizzazione debba essere più radicale. Qui sono state fatte alcune proposte, ma credo che si debba pensare soprattutto a un nuovo modo di essere Chiesa. Serve una Chiesa più comunitaria, più evangelica, perciò anche più povera. Una Chiesa dove la centralità della Parola di Dio e dell’Eucaristia sia veramente un fatto concreto. Credo che partendo da lì si possano affrontare poi tutti gli altri problemi concreti come i nuovi ministeri e come l’esigenza di una pastorale della presenza più che della visita. Dobbiamo però essere concreti. È vero che ci sono popolazioni un po’ disperse, dove non ci sono sacerdoti residenti. In questi casi credo che una pastorale itinerante più precisa e più strutturata potrebbe dare buoni risultati. Questa è una delle risposte concrete che stanno venendo fuori. Però credo che dobbiamo soprattutto convertirci. In America Latina abbiamo avuto le grandi conferenze dei vescovi a Medellin, Puebla, Santo Domingo e Apareçida che ci hanno indicato questo cammino. Però vedo che siamo ancora lontani dall’averle assunte pienamente. E in questa trasformazione, in questa conversione del nuovo modo di essere Chiesa, soprattutto, io direi serve il timbro missionario: dobbiamo essere Chiesa che esce e che va incontro alle realtà concrete, alle persone concrete e ai popoli concreti.

C’è un’aspettativa particolare che lei ha nei confronti di questo sinodo, un’idea che le piacerebbe uscisse dal vostro dibattito?

R. - A me, personalmente, piacerebbe molto si riparlasse delle piccole comunità ecclesiali di base. L’America Latina ha avuto un’esperienza molto forte con queste comunità che poi, per errori commessi, perché non le abbiamo accompagnate concretamente, sono state politicizzate o meglio ‘partitizzate’, se si può dire, e ciò ha rotto questo cammino… Io, invece, vedevo in queste piccole comunità la nuova base ecclesiale. Le piccole comunità dove la gente vive la comunione, la solidarietà, la fede. Dove anche l’impegno sociale parte dalla propria fede. Credo si potrebbero rilanciare le comunità di base però con l’impegno di accompagnarle e di capirne fino in fondo lo spirito. La parrocchia diventerebbe così un livello intermedio dell’organizzazione ecclesiale e non più il livello di base. Allora cambierebbe anche il ruolo del sacerdote, che sarebbe incaricato del coordinamento della comunione delle varie comunità e poi ancora nella diocesi il vescovo si assumerebbe il servizio di coordinare il tutto a livello superiore.

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16 ottobre 2019, 15:29