Giorno della Memoria: nei Musei Vaticani “Dachau”, opera nata nel lager
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Per il terzo anno consecutivo i Musei Vaticani ricordano l’orrore della Shoah nella ricorrenza internazionale del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, con un’ iniziativa espositiva che durerà oltre un mese e che vede protagonista la Collezione d'arte contemporanea. Quest’anno è stata scelta una nuova acquisizione, l’opera Dachau, disegno nato nell'omonimo lager a opera del pittore e incisore di origini slovene Anton Zoran ѳšč, proprio durante la sua prigionia nel campo di concentramento.
“Disegnavo di nascosto, non appena potevo”
L’opera, una sanguigna su cartoncino, viene esposta dal 26 gennaio al 2 marzo, nella sala delle ceramiche ed è stata scelta per onorare il Giorno della Memoria, spiegano i Musei Vaticani, “per affinità tematica, singolare genesi creativa, forte valenza simbolica e profonda carica emozionale”. “Disegnavo tutto il tempo, non appena potevo. – così descrive l’artista il suo primo approccio al disegno e la sua funzione salvifica – Avevo trovato dei pezzi di carta nell'ufficio degli architetti e mi sono chiuso dentro l'infermeria, la baracca dove si stipavano i malati, durante un'epidemia di tifo. Le SS avevano paura di entrare e quindi ho potuto disegnare liberamente per la prima volta”.
Disegni realizzati tra il 1944 e i ‘45
L’opera è entrata recentemente a far parte delle collezioni vaticane grazie alla donazione di Giovanna e Armando Santus. Proviene dalla collezione di Baldo Crismani, amico con cui Music condivide la terribile esperienza di Dachau, che ha ricevuto in dono due disegni di un nucleo di circa ottanta carte che l’artista realizza nell’inverno tra il 1944 e il 1945, documentando una delle parentesi più buie della storia moderna.
Da Gorizia a Venezia, poi la deportazione a Dachau
Nato nel 1909 a Gorizia, studia all’Accademia di Belle Arti di Zagabria, viaggi poi tra la Spagna e l’Europa centrale e si stabilisce a Venezia. Lì è arrestato nel 1944 dalla Gestapo per la sua amicizia con alcuni esponenti della resistenza slovena e il 18 novembre viene deportato a Dachau. Lì riesce a realizzare in segreto una serie di disegni che fissano sulla carta le atrocità quotidiane alle quali assiste nel campo di concentramento nazista. “I cadaveri si trovano dappertutto – racconta – impilati gli uni sugli altri”. Raccogliere le testimonianza di quanto vedeva era per lui l’unico modo per sopravvivere e salvare la sua integrità umana.
Torna sugli orrori del lager nel 1970
Liberato dagli americani nel giugno 1945, ѳšč torna a Venezia e riprende la sua attività di pittore e incisore. Nel 1970 torna a rivisitare i suoi ricordi del lager nel ciclo Noi siamo gli ultimi e trasforma in tragedia universale l’inferno del campo di concentramento. Muore a Venezia nel 2005 all’età di 96 anni. Il direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani, Micol Forti, spiega in quest’intervista le motivazioni dell’esposizione dell’opera Dachau.
R. – Sono già alcuni anni che i Musei Vaticani hanno deciso di aderire visivamente, fattivamente, al Giorno della Memoria, mettendo in esposizione e offrendo ai nostri visitatori un approfondimento sulle opere che all’interno delle nostre collezioni sono nate in occasione dell’Olocausto. E in particolar modo quest’anno presentiamo un disegno piccolo ma molto prezioso, che è entrato nelle nostre collezioni pochi mesi fa. È un’opera di Zoran Music, un artista sloveno che viene arrestato dalla Gestapo per ragioni politiche. Non è ebreo ma verrà rinchiuso ad Auschwitz fino alla fine della guerra riuscendo a sopravvivere in parte anche grazie al suo lavoro di artista. Armato solo di una matita e di qualche foglio – i pochi e poveri strumenti che gli venivano concessi – registra l’orrore che lo circonda, che sarà soprattutto la morte. La sua testimonianza è particolarmente incisiva perché è quella di un testimone oculare di un artista che ha avuto il coraggio di riprendere il suo lavoro dopo la tragedia dell’Olocausto, e di non dimenticare, di offrire la sua riflessione visiva affinché si riesca a mantenere una memoria collettiva di quello che è accaduto. Per i Musei Vaticani vuol dire un piccolo segnale affinché l’idea della memoria non sia singolo, non sia individuale, non riguardi un nostro passato, ma ci ricordi che le tragedie hanno senso se le manteniamo vive nel nostro presente, e affinché non si ripetano nel futuro.
Negli scritti successivi, l’autore racconta come per lui è stato salvifico, anche per la sua salute mentale, per sentirsi ancora uomo, poter dipingere anche all’interno della situazione drammatica della detenzione nel campo di concentramento…
R. – Poter lavorare, produrre immagini per un artista in quella circostanza, come Music stesso ci racconta, è stato come un filo di Arianna di collegamento con la vita. Lui era chiuso in un labirinto di morte dal quale era complicatissimo immaginare un’uscita. Restare in contatto con la propria mente, cioè con una capacità di astrarsi, anche se le sue immagini ci raccontano quello che i suoi occhi vedevano, ha rappresentato per Music la possibilità di mantenere viva la speranza che quel filo lo portasse fuori da quel labirinto. Esserci, percepirsi, come essere umano, essere vivente, e non semplicemente un pezzo di carne buttato al centro delle altre morti, sarà il modo e l’unica vera possibilità affinché queste opere ci raccontino quello che è successo e ci insegnino rispetto alla tragedia che loro hanno vissuto.
Questa non è l’unica opera dei Musei Vaticani che raffigura l’Olocausto. Vuole ricordarci l’opera che avete esposto nel 2017 e nel 2018 per il Giorno della Memoria?
R. – Si tratta di un dipinto di un’artista ungherese scomparsa alla fine del 2017, Alice Lok Cahana, quindicenne, è stata rinchiusa con tutta la sua famiglia ebrea ad Auschwitz, lei sarà la sola sopravvissuta. Uscita e trasferitasi negli Stati Uniti, ha dedicato tutta la sua attività pittorica e la sua testimonianza con opere che semplicemente attraverso l’accenno dei due binari del treno che arrivava ai cancelli dei campi di concentramento e dei numeri che venivano stampati, impressi, sulla pelle dei detenuti, ha dedicato a questi temi la sua attività pittorica. L’opera che noi abbiamo è un dono che l’artista ha voluto fare personalmente sebbene molto anziana, a Papa Benedetto; e tutta la sua vita è stata costellata da un impegno costante nel testimoniare quello che lei stessa aveva vissuto. Dunque sono due opere, entrambe prodotte da due testimoni oculari che hanno deciso che non si poteva semplicemente custodire dentro di sé la memoria di quegli orrori, ma che quello che era accaduto, se può avere un senso, è solo perché non si ripeta mai e quindi diventi patrimonio di tutti noi.
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