In Vaticano la Conferenza internazionale sul giornalismo di pace
Debora Donnini-Città del Vaticano
Cosa è e come si fa il giornalismo di pace. La Conferenza internazionale, che si è tenuta stamani in Vaticano, organizzata dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e con SIGNIS, ha offerto esperienze concrete di come si costruisce e si forma al giornalismo di pace. Lo ha fatto portando le testimonianze di quattro persone impegnate concretamente sul campo, come Johan Galtung, che ha creato Transcend International, è riconosciuto come il fondatore dei moderni studi sulla pace ed è stato mediatore in 150 Paesi. Una conferenza seguita, poi, dal lavoro in diversi gruppi proprio per capire più da vicino quali sono le buone pratiche e le sfide del giornalismo di pace.
Ruffini: riallacciare filo con Paolo VI e mons. Romero
Un convegno che ha voluto porsi come un “passaggio di testimone” fra il di Papa Francesco, dedicato proprio al tema del giornalismo di pace e delle fake news, e il Messaggio per il prossimo anno, che esorta a “non ridurre il concetto di comunità ad un surrogato superficiale”, perché “non c’è community se non c’è comunità”, ha detto nel saluto iniziale il prefetto del Dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini. In un tempo “pericolosamente tentato dalla radicalizzazione, dalla semplificazione” e che costruisce incessantemente capri espiatori per ridurre “tutto o quasi tutto a un dualismo feroce”, occasioni come questa “servono a risvegliare i significati di quello che siamo, di quello che facciamo”. Richiamandosi a Dietrich Bonhoeffer, Ruffini sottolinea come la pace si coniughi meglio con la giustizia che con la sicurezza, “che non è sempre giusta”, e non lo è quando riduce l’altro ad un nemico da cui difendersi. Infine, citando “Le città invisibili” di Italo Calvino, il prefetto osserva che il giornalismo di pace è proprio quello che dà spazio e riconosce in mezzo all’inferno, ciò che inferno non è. Nel tempo dei social bisogna quindi non trasformare la rete in un luogo dove si perdono le relazioni vere e il dialogo sincero. Occorre quindi ripartire dalla realtà delle persone tutte intere. E la pace, seppure è una cosa difficilissima, è possibile e doverosa. Domani, poi, Paolo VI e mons. Oscar Romero saranno proclamati Santi: riallacciare il filo fra noi e loro è, sottolinea Ruffini, un modo per costruire un giornalismo di pace.
Card. Turkson: tutelare dignità e diritti persone
Ad intervenire anche il cardinale Peter Turkson, che si è richiamato a Paolo VI e al legame decisivo, da lui indicato, fra la pace e lo sviluppo. Il prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ha voluto evidenziare che la non violenza va compresa non solo in termini di disarmo ma implica anche tutelare e rispettare i diritti delle persone altrimenti si finirà sempre per combattere, perché dietro ogni conflitto c’è un problema di dignità trascurata delle persone.
Galtung: approfondire cosa significa la pace
Partendo da uno dei capisaldi del suo pensiero, la distinzione fra “pace positiva” e “pace negativa”, dove la distinzione è fra un impegno attivo a fare qualcosa oppure no, Johan Galtung prima di tutto chiede ai giornalisti di non essere troppi catturati dalla notizia del giorno, ma proporre anche una sintesi di quanto avvenuto precedentemente. Per Galtung, poi, non c’è contrapposizione fra “giornalismo di pace” e “giornalismo di guerra” , bisogna fare entrambi ma approfondendo cosa significhi la pace, che implica un’azione attiva, perché in genere si sa invece bene cosa sia la violenza.
Ray Sheng-Her: giornalisti come terapeuti sociali
Ray Sheng-Her, direttore della Tzu Chi Foundation, la più grande organizzazione buddista al mondo, ha tracciato una breve sintesi del giornalismo moderno. Il giornalismo di pace deve essere un “giornalismo costruttivo” e cercare non solo di analizzare ma di trovare soluzioni, di sostenere le persone, essere empatici: “i giornalisti – ha detto – possono essere dei terapeuti sociali”.
Bassil: documentare i conflitti in modo costruttivo
A fare della formazione al giornalismo di pace il cuore della propria missione lavorativa, è stata sicuramente Vanessa Bassil, fondatrice e presidente della Media Association for Peace (MAP). Una giovane donna libanese, che è partita dall’organizzazione di incontri per arrivare a fondare un’associazione, la prima in Libano, Nord Africa e Medio Oriente, specializzata su questo tema. Centrale è stato il lavoro con i rifugiati. Sono due milioni in Libano, a causa della guerra in Siria. E proprio nei campi profughi sono state fatte interviste e video per raccontare storie positive di integrazione. La formazione per giornalisti, portata avanti dalla sua organizzazione, è proprio quella di incoraggiare al rispetto dei diritti umani, al dialogo, allo sviluppo sostenibile. Una formazione che punta a far documentare i conflitto in modo costruttivo, diffondendo una cultura della pace.
NetOne e il giornalismo dialogico
Giornalismo di pace significa giornalismo dialogico nell’esperienza del progetto NetOne, di cui Stefania Tanesini è la coordinatrice internazionale. Si tratta di una rete internazionale di giornalisti, cattolici e non, promossa dal Movimento dei Focolari, che fra i grandi temi si occupa anche di migrazioni. Nell’intervista a Pope, Stefania Tanesini spiega concretamente cosa sia il giornalismo dialogico. (Ascolta l'intervista a Stefania Tanesini)
R. – Chiediamo al giornalista che entra a far parte della Rete di avere un atteggiamento dialogante, di essere preparato nei forum, nei workshop che facciamo, cerchiamo di garantire una preparazione: dati alla mano, storie. E chiediamo di rischiare: rischiare anche di uscire dalla corrente del main stream sui grandi temi potenzialmente divisibili nella società. Andare a guardare non solo la spettacolarizzazione, non solo il negativo, ma dar voce al positivo, dando però fatti concreti e dati.
Quando si parla, per esempio, di alcuni temi etici, a volte è necessario dare, in qualche modo, “un giudizio”. Come si può farlo mantenendo però sempre questo principio di giornalismo dialogico, cioè di giornalismo costruttivo?
R. – I fatti non si possono cambiare. Naturalmente, se qualcosa è nero, è nero, bisogna dirlo. L’atteggiamento dovrebbe essere quello di dar voce a tutte le parti in causa. Che cosa viene richiesto a un giornalista che si riconosce in un atteggiamento dialogico? Una profonda onestà intellettuale, una profonda preparazione e quindi dar voce senz’altro al fatto in sé, ma anche saper scorgere quei lati della notizia che non vengono comunicati perché magari fanno poca audience; dar voce, cercare storie, cercare fatti. E soprattutto, un elemento al quale teniamo tantissimo, è l’interdisciplinarietà. Quando si racconta un fatto, quindi, non ascoltare solo il politico di turno, non ascoltare solo il professore; cercare di andare ad ascoltare tutte le voci della società, perché il giornalista è parte della società, è parte di un corpo sociale e ne dà voce.
Lei metteva anche in evidenza l’importanza che il giornalista vada, proprio fisicamente, dove vi sono i conflitti…
R. – Questo è un altro principio a cui teniamo moltissimo. Ci rendiamo conto che non sempre è possibile, perché il giornalista oggi è inchiodato alla scrivania per motivi economici, per motivi di scelte dell’editore, eccetera. Quello che cerchiamo di fare nei seminari che promuoviamo è l’elemento che chiamiamo in loco, cioè muoverci, andare in gruppo proprio lì dove i temi sono potenzialmente divisivi e conoscere, con i propri occhi, la realtà, cioè rivalutare il principio della realtà e quindi della verità dei fatti.
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