ĂŰĚŇ˝»ÓŃ

Mons. Dario Edoardo Vigano, prefetto della Segreteria per la Comunicazione Mons. Dario Edoardo Vigano, prefetto della Segreteria per la Comunicazione 

Mons. Viganò all’Università di Monterrey: cinema luogo per “cercatori di Dio”

Il prefetto della Segreteria per la Comunicazione in una conferenza alla Cattedra di Arte Sacra con l’intervento “il volto di Gesù al cinema: storia, modelli narrativi, questioni intersemiotiche”.

Michele Raviart – Città del Vaticano

Luce e buio. Due opposti necessari per fruire della visione cinematografica e un’occasione per cercare “negli anfratti delle storie narrate quelle tracce di Dio da sempre inseguite dall’uomo”. Da questo presupposto parte il ragionamento di mons. Dario E. Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione,  nella prima conferenza alla Cattedra di Arte Sacra dell’Università di Monterrey, in Messico. Un intervento dal titolo “Il volto di Gesù al cinema: storia, modelli narrativi, questioni intersemiotiche”, che analizza la storia di questa forma d’arte come un luogo anche per “cercatori di Dio”, a partire proprio dalle pellicole con al centro la figura di Cristo o a questa ispirate.

Il cinema cristologico come specchio dei tempi

Dai pionieri Auguste e Louis Lumière, che filmarono una sacra rappresentazione pasquale nel 1897, al padre degli effetti speciali Georges Méliès, dal kolossal “il Re dei Re” di Cecil B. De Mille alla visione popolare de “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens,  passando per “Jesus Christ Superstar”, “emblema dei fermenti anticonformisti e pacifisti della cultura hippy” e per il cinema di Robert Bresson, “la storia del cinema cristologico dà forma alle domande e alle tensioni culturali e intellettuali dei vari momenti storici nei quali un’opera prende corpo”. Due in particolare i film sui quali si sofferma l’analisi di mons. Viganò: “l Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini del 1964, che prende le mosse direttamente dal testo evangelico e “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli del 1976, “che si colloca in una prospettiva di rilettura unitaria delle storie/interpretazioni di Gesù perdendo il proprium del testo sacro”.

Il “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini

Un processo di traduzione intersemiotica dal linguaggio scritto della Parola a quello non linguistico delle immagini e del sonoro, che con Pasolini nasce con “La ricotta”, episodio del film collettivo “Ro.Go.Pa.G.” del 1963 e che matura con il lungometraggio dell’anno successivo, “in cui recupera lo scandalo e la bellezza del messaggio evangelico contestualizzandolo nel Sud d’Italia, tra gli sguardi trasparenti di attori  non professionisti”. Nel film lo sguardo dello spettatore è quello degli apostoli e in particolare quello di Giovanni. Durante il processo a Gesù “ci sentiamo con lui sballottati tra la folla di chi assiste, guardiamo e ascoltiamo in modo imperfetto, come se davvero fossimo lì, incapaci di cogliere l’insieme e di dare ordine agli eventi”.

La scelta di non mostrare la morte di Cristo

Significativa e conseguente a questa impostazione la scelta di non mostrare la morte di Cristo. “Pasolini ha evidenziato meglio di ogni scritto teologico, che la morte di Gesù, e dunque la sua obbedienza al Padre, il suo amore straordinario per ogni uomo, è talmente centrale nella storia dell’umanità che a essa non è possibile accedere con lo sguardo: di fronte a essa abbiamo una sorta di estraniazione perché la morte in croce, luogo di rivelazione della gloria del Padre, esige il superamento di uno sguardo che diviene ascolto”, afferma mons. Viganò. “ e per questo Pasolini, con una scelta registica assolutamente anticinematografica, chiude l’obiettivo e mostra il nero”.

Il “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli

La pellicola di Zeffirelli, seppure connotata da “una minor capacità di spingere strutturalmente lo spettatore a risalire con cuore indietro fino alle fonte dell’originale”,  pone invece l’accento su “violenza e ipocrisia del potere”. La flagellazione di Cristo viene infatti alternata con il dialogo tra Pilato e il rappresentante del Sinedrio e “la violenza nei confronti di Gesù, la sua esposizione ai colpi, viene letteralmente vista dall’alto (non dal basso, dal popolo come in Pasolini) e cioè attraverso lo sguardo di Pilato e del suo interlocutore, con un’inquadratura in soggettiva”.  Allo stesso modo vediamo lo scherno dei soldati dal punto di vista di Gesù, che quando viene riportato davanti a Pilato dopo la tortura appare nella “luminosità della sua figura di agnello sacrificato, che prelude però già alla luce della Resurrezione”. Il punto di forze di “Gesù di Nazareth”, conclude mons. Viganò, "sta nella capacità di rileggere la violenza nella Passione, con una chiave di lettura che parte dalle inquietudini di ogni tempo e di ogni luogo che con la violenza del potere hanno dovuto ripetutamente e tragicamente confrontarsi”.

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

13 febbraio 2018, 17:30