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Maffeis: per il Papa la comunicazione deve aprire spazi alla relazione

Intervista con don Ivan Maffeis, portavoce della Conferenza episcopale italiana, su Papa Francesco e la “missione” della comunicazione

Alessandro Gisotti - Città del Vaticano

Nella mattinata di lunedì scorso, nell’arco di poche ore, Papa Francesco ha rivolto due significativi discorsi sulla comunicazione, il primo incontrando i dipendenti del della Santa Sede, riunito nella sua Assemblea Plenaria; il secondo rivolgendosi ai , l’Unione Cattolica della Stampa Italiana, in occasione del 60.mo di fondazione. Queste due udienze ravvicinate – quasi un primo e secondo atto di uno stesso evento – hanno sottolineato, ancora una volta, la grande attenzione che il Pontefice riserva agli operatori dell’informazione. Per una riflessione su alcuni dei messaggi forti che il Papa sta lanciando al mondo della comunicazione e sulla responsabilità che i giornalisti cattolici hanno nel raccogliere la sfida lanciata da Francesco, abbiamo intervistato Don Ivan Maffeis. Consultore del Dicastero per la Comunicazione e sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, don Maffeis ha lasciato a Vincenzo Corrado la direzione dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Cei, dopo dieci anni di servizio, mantenendo l’incarico di portavoce dei vescovi italiani.

Due udienze a operatori della comunicazione nella stessa giornata. Collegando i due discorsi, emerge quasi un vademecum per i comunicatori di oggi. E’ un paradosso che sia un Papa a dover ricordare i valori fondanti e le finalità della professione del giornalista?

R. - Il paradosso, in realtà, è solo apparente. Fin da quel “Buonasera” con cui si è affacciato su Piazza San Pietro, fin da quel nome, Francesco, carico di memoria e di futuro; fin dal silenzio, che ha portato e raccolto, il Papa ha indicato una strada. È il comunicatore che cerca il contatto, apre alla relazione, coinvolge nell’abbraccio. Fa notizia la sua sobria normalità, che testimonia la freschezza del Vangelo e la compagnia della Chiesa, proponendo una cultura dell’incontro inclusiva e liberante.

Parlando ai dipendenti del Dicastero per la Comunicazione, il Papa ha messo in guardia dalla “cultura degli aggettivi e degli avverbi” che ha sopraffatto “la forza dei sostantivi”. Il richiamo è molto profondo e può essere, invero, applicato anche oltre la dimensione della comunicazione. Ci stiamo ammalando di “aggettivismo”?

R. - La parola è segno, autentico nella misura in cui attinge e rimanda al significato: probabilmente, più questo è povero, più siamo esposti alla tentazione di moltiplicare gli aggettivi per edulcorare la realtà: accumuliamo frammenti, senza saperli ricondurre a un quadro d’insieme, a un disegno dotato di senso. A quel punto, il re rimane nudo, proprio come nella fiaba “I vestiti dell’imperatore”. Del resto, come ci ricorda il Santo Padre, le parole pesano: le sostiene solo chi le incarna nella vita. Anche nella cultura digitale, la testimonianza rimane cifra di affidabilità.

Il Papa prende sul serio la professione del comunicatore. Se San Giovanni Paolo II aveva definito il giornalismo un compito “in un certo senso sacro”, Francesco lunedì ha detto che “comunicare è proprio prendere dall’Essere di Dio e avere lo stesso atteggiamento” …

R. - Chi non smette di ritrovarsi nella sequela del Signore Gesù, fino ad assumerne i sentimenti e lo sguardo, non stenta a lasciarsi interpellare dalla storia dell’uomo, a raccoglierla con rispetto, a farsene voce. Comunicare ha a che fare con la disponibilità ad aprire la propria porta al mondo che si racconta, ai colori e alle sfumature delle cose, ai destini degli altri, scoprendo la ricchezza che nasce dal lasciarsi incontrare, dal coinvolgersi.

Rivolgendosi ai membri dell’Ucsi, Francesco li ha esortati a non aver paura “di rovesciare l’ordine delle notizie, per dar voce a chi non ce l’ha”. E’ questo l’impegno più urgente per i media cattolici, oggi? E’ una sfida che si può vincere?

R. - È una scelta di campo, che – come ci ha ricordato Papa Francesco nell’incontro con Avvenire – porta a non lasciarsi dettare l’agenda da nessuno, se non appunto dai poveri, dagli ultimi, dai sofferenti; ad andare oltre l’informazione di facile consumo e a partire dalle periferie, “consapevoli che non sono la fine, ma l’inizio della città”. Non so se la sfida sia vincente: passa, comunque, da questa prospettiva la dignità della professione e la capacità di suscitare la speranza; passa da questa appartenenza la possibilità di offrire contenuti, analisi, approfondimenti e chiavi di lettura, che - anche nel tempo della disintermediazione - fanno la differenza.

Lei, questa settimana, ha lasciato la direzione dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Cei. Tra le tante esperienze vissute e lezioni imparate, ce n’è una che vuole condividere?

R. - La ricondurrei alla trama di relazioni significative, di cui rimango debitore; relazioni legate soprattutto al territorio, alle Diocesi, alla fatica di tanti che, nel nascondimento, svolgono il loro servizio con sensibilità e passione. Mi hanno aiutato a leggere e affrontare le implicazioni esistenziali, culturali e sociali di questo tempo, l’opportunità di una comunicazione diretta e diffusa, l’esigenza di muoversi nella prospettiva della condivisione e dell’integrazione. Riconoscersi e fare rete: per la Chiesa ne va della sua stessa natura.

 

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28 settembre 2019, 12:46