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Papa Francesco e il Grande Imam di Al Azhar Papa Francesco e il Grande Imam di Al Azhar

Papa a Napoli. Shem Djebbi: fratellanza, un percorso lento ma possibile

Il dialogo con l'Islam dopo il Documento sulla fratellanza di Abu Dhabi: questo l'argomento al centro di due relazioni di questa mattina al Convegno di Napoli alla presenza di Francesco. Intervista con Sihem Djebbi, di origine tunisina, docente a Parigi di Scienze politiche e Relazioni internazionali, autrice di uno degli interventi sul tema

Gabriella Ceraso - Napoli

E' uno dei fili conduttori del Convegno cui questa mattina partecipa Papa Francesco a Napoli: il per la Pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi, il 4 febbraio scorso, da Papa Francesco e dal Grande Imam di al- Azhar Ahmad Al-Tayyib

Nel contesto di ricerca di vie di dialogo possibili per cambiare il volto del Mediterraneo, che il Convegno persegue, quell'evento ha segnato una tappa fondamentale, "nato  - ha detto il Papa - dalla fede in Dio che è Padre di tutti e Padre della pace" e "condanna di ogni distruzione, ogni terrorismo, dal primo terrorismo della storia che è quello di Caino". A distanza di quasi cinque mesi a Pope parla la relatrice del Convegno di Napoli sul tema del dialogo interreligioso, Sihem Djebbi, docente di Scienze politiche e Relazioni internazionali a Parigi, che parte proprio da una valutazione dello stato attuale del dialogo tra islam e cattolicesimo:  

Ascolta l'intervista alla prof.ssa Sihem Djebbi

R. – E’ difficile rispondere a tale domanda, perché non c’è proprio una via lineare e centralizzata, perché le autorità dell’islam, dei modi islamici, sono multiple. Ci sono diverse iniziative che sono state prese nel senso del dialogo interreligioso, sia a livello internazionale sia a livello della società civile. Quindi abbiamo diverse iniziative che non sono sempre connesse e quindi non si può rispondere in modo semplice. Però, quello che possiamo dire è che l’iniziativa attuale con il Documento sulla fratellanza umana firmata a febbraio dal Papa e dal Grande Imam di al Azhar, è una dinamica molto importante perché concentra sia il livello istituzionale statale sia quello della società civile, visto che ci sono diversi ulema riconosciuti nel mondo islamico che hanno contribuito a questo approccio che è stato molto mediatizzato: possiamo pensare che dietro ci saranno diverse risorse, energie che saranno dedicate e che potranno creare quella che io chiamo una comunità epistemica di dialogo interreligioso.

 

Se possiamo fare un bilancio, qual è stato finora l’impatto nel mondo islamico della firma di questo Documento di Abu Dhabi? E quindi che interpretazione ne hanno dato? Ci sono resistenze?

R. – Direi intanto che ci sono resistenze come ce ne sono anche nel mondo cattolico, sulla firma di quel Documento. Ci sono resistenze per motivi politici, perché dietro a questo Documento e a questa firma ci sono anche degli approcci politici, delle strategie politiche, in parte implementati dagli Emirati Arabi Uniti, per emarginare un po’ il movimento dei Fratelli musulmani. Quindi, la critica proviene in parte dai Fratelli musulmani, la critica e la resistenza a questo Documento che comprende anche il senso e i principi. Però, c’è anche un’eco molto positiva nella società: è stato molto mediatizzato, tutti i giornali di tutti i Paesi hanno trattato in modo positivo questa firma perché c’è anche un’attesa delle società. E come ho detto all’inizio, ci sono diverse iniziative anche all’interno delle società e delle società civili, nel senso del dialogo. Quindi è stato ricevuto positivamente. Però, penso che potremo misurare l’effetto reale solo su un tempo un po’ più lungo.

 Lei ha parlato di qualcosa che c’è alle spalle di questa firma del Documento di Abu Dhabi: parla di una “diplomazia del dialogo”. Cosa significa?

R. – E’ un approccio politico e diplomatico che serve a diverse autorità e a diversi Stati ma anche al Azhar, come istituzione, per avere una visibilità internazionale e per migliorare un’immagine che spesso può essere negativa, per diversi motivi. Ad esempio, non possiamo dimenticare che oggi gli Emirati sono anche coinvolti in una guerra all’interno di una coalizione contro lo Yemen, che causa molte vittime civili. Però, comunque, sono iscritti anche in una diplomazia di apertura e di tolleranza, soprattutto a livello culturale e religioso che però non ha un contrappeso nel mondo politico, perché rimane un’autocrazia. Le cose possono comunque evolvere e lo vediamo con il miglioramento delle condizioni della libertà religiosa nel Paese. Quindi, è una diplomazia di “public diplomacy”, di “soft power” politico-religioso, ma non vuol dire che non ci possano essere anche degli effetti positivi. E questo non vuol dire neanche che non possiamo considerare positivamente i valori all’interno del Documento.

Quindi non toglie speranza a un progresso nel cammino, nonostante ci sia una politica, una diplomazia alle spalle?

R. – No, perché per essere credibili a questo livello non ci si può limitare a parole e a dichiarazioni: è necessario anche dimostrare una certa coerenza nelle azioni e nella legislazione che evolva in tal senso. Quindi dobbiamo sempre essere prudenti e critici riguardo a queste dimensioni del potere, che comunque non possono non esistere; però, non essere neanche pessimisti, perché non vuol dire che avere questo intento strumentale non ci possano essere comunque delle conseguenze positive. Perché le identità e gli interessi evolvono e possono influenzare positivamente i diversi attori della società civile, gli ulema, gli imam, la formazione degli imam che dovranno dimostrare anche di trasporre negli atti i valori e i principi enunciati nel Documento.

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21 giugno 2019, 07:20