Benedetto XVI sei anni dopo la rinuncia: l'attualità di un magistero
Andrea Tornielli - Città del Vaticano
Sono passati sei anni da quel fulmine a ciel sereno, la prima di un Papa per motivi di salute e di vecchiaia. L'11 febbraio 2013 Benedetto XVI, quasi al compimento dell'ottavo anno del suo pontificato, annunciava la sua volontà di lasciare il ministero petrino alla fine di quello stesso mese, perché non si sentiva più in grado di portare - fisicamente e spiritualmente - il peso del pontificato. Il peso di un ministero che nell'ultimo secolo è profondamente mutato per quanto riguarda la modalità del suo esercizio, con l'aggiungersi di celebrazioni, impegni, appuntamenti, e viaggi internazionali.
Tanto è stato detto e scritto su quell'evento destinato a segnare la storia della Chiesa. E si può correre il rischio di focalizzare soltanto su quel gesto umile e dirompente tutta l'attenzione, finendo così per far passare in secondo piano la testimonianza personale e soprattutto il magistero di Benedetto XVI. A proposito della testimonianza, visto l'ormai imminente inizio dell'Incontro per la protezione dei minori che vedrà riuniti in Vaticano con Papa Francesco i presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, vale la pena ricordare come sia stato proprio Benedetto XVI ad iniziare gli incontri con le vittime sopravvissute agli abusi. Incontri lontano dalle telecamere, fatti di ascolto, preghiera e pianto. Certo, a questi incontri si sono accompagnate norme più chiare e decise per combattere la terribile piaga degli abusi. Ma non c'è dubbio che il cambio di mentalità richiesto innanzitutto ai vescovi e ai superiori religiosi passa attraverso questa capacità di farsi incontro alle vittime e alle loro famiglie, lasciandosi ferire dai loro drammatici racconti, per prendere coscienza di un fenomeno che non potrà mai essere combattuto solo con norme, codici o best practices.
Per quanto riguarda il magistero di Papa Ratzinger, troppo spesso “schiacciato? da letture riduttive e cliché prefabbricati incapaci di valorizzarne la ricchezza, la complessità e la fedeltà all'insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II, come non ricordare l'insistenza sul fatto che la Chiesa «non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata, in modo da poter dire: l’abbiamo fatto molto bene! Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio». L'opposto dunque del confidare nelle strategie e nei progetti. La Chiesa, continuava Benedetto XVI in un nel settembre 2011, «quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’Incarnazione».
In quello stesso discorso, Papa Ratzinger metteva in guardia dalla tendenza contraria. Quella «cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo... Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo». Perciò il Pontefice tedesco in quel discorso mostrava il lato positivo della secolarizzazione, che ha «contribuito in modo essenziale alla purificazione e riforma interiore» della Chiesa stessa anche espropriandola dei suoi beni e dei suoi privilegi. Perché, concludeva, «liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo».
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