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2018.01.17 Santa Messa Aerodromo di Maquehue a Temuco 2018.01.17 Santa Messa Aerodromo di Maquehue a Temuco 

Omelia alla Messa nell’Aerodromo di Maquehue a Temuco

VIAGGIO APOSTOLICO

DEL SANTO PADRE FRANCESCO

IN CILE

 

Omelia: Santa Messa per il progresso dei popoli

Temuco

Mercoledì 17 gennaio 2018

 

«Mari, Mari» (buongiorno)

«Küme tünngün ta niemün» «La pace sia con voi» (Lc 24,36).

            Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare questa bella parte del nostro continente, l’Araucanía: terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei suoi immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie – il quinto elogio fatto da Gabriela Mistral a questa terra cilena –,[1] i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura. Molte generazioni di uomini e donne hanno amato e amano questo suolo con gelosa gratitudine. E voglio soffermarmi e salutare in modo speciale i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri.

            Questa terra, se la guardiamo con gli occhi dei turisti, ci lascerà estasiati, però dopo continueremo la nostra strada come prima ricordandoci dei bei paesaggi che abbiamo visto; se invece ci avviciniamo al suolo lo sentiremo cantare: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere».[2]

            In questo contesto di ringraziamento per questa terra e per la sua gente, ma anche di sofferenza e di dolore, celebriamo l’Eucaristia. E lo facciamo in questo aerodromo di Maqueue, nel quale si sono verificate gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. E ricordando queste cose, rimaniamo un istante in silenzio, pensando a tanto dolore e a tanta ingiustizia.

Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare.

            Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo fare nostra questa preghiera di Gesù, vogliamo entrare con Lui in questo orto di dolore, anche con i nostri dolori, per chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione.

            Questa unità, implorata da Gesù, è un dono che va chiesto con insistenza per il bene della nostra terra e dei suoi figli. E bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare e con cui ci invita ad essere autentici protagonisti della storia.

Quali sono queste tentazioni: una è quella dei falsi sinonimi.

 

1. I falsi sinonimi

Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori. Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei vari paesaggi. Non è un’arte da scrivania o fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento; un’arte dell’ascolto. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare.

         L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri [...] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi».[3] Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità.

Un’altra tentazione può venire dalla considerazione di quali sono le armi dell’unità.

2. Le armi dell’unità

            L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che, se non diventando concreti, finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza, perché? perché frustra la speranza.

            In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato solo maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa – menzognera – la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme.

            Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercarlo: il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: “Signore, la via della nonviolenza attiva «come stile di una politica di pace».[4] Cerchiamo, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità.

 

            Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Monge: questo buon vivere, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola:  Signore, rendici artigiani di unità.

 

[1] Cfr Elogios de la tierra de Chile.

[2] Violeta Parra, Arauco tiene una pena.

 

[3] Esort. ap. Evangelii gaudium, 246.

[4] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017.

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17 gennaio 2018, 22:52