Riccardo Zucchi: "Diciamo no alla ricerca sulle armi"
Andrea Tornielli
L’Università di Pisa ha approvato una modifica al proprio Statuto per confermare nero su bianco l’impegno per la concreta attuazione dei principi della pace, della sostenibilità e della responsabilità sociale. Una decisione significativa che attesta la volontà di integrare valori etici fondamentali nelle attività accademiche e di ricerca. I media vaticani ne hanno parlato con il rettore dell’ateneo, Riccardo Zucchi.
Professore, perché l’avete fatto?
È stata la conclusione di un percorso, accelerato dagli eventi tragici che si sono verificati dal 7 ottobre 2023 in poi. Abbiamo avuto dibattiti, incontri e manifestazioni studentesche. Abbiamo cercato di gestirle in modo condiviso: fermo restando il rifiuto di ogni atto di violenza, abbiamo cercato di discutere. Abbiamo aperto i corridoi umanitari a favore di studiosi e studenti palestinesi. Abbiamo avviato una discussione sul tema dell’antisemitismo, affermando che criticare la politica dell’attuale Stato di Israele è tutt’altra cosa rispetto all’antisemitismo. Ovviamente senza mai far venir meno il rispetto al popolo ebraico. Abbiamo affrontato anche il tema del boicottaggio di iniziative in partnership con alcune università israeliane, chiesto agli studenti. Non l’abbiamo accolto, perché l’università costruisce ponti e non erige muri. Anzi, proprio queste iniziative sono le occasioni per avviare un dialogo con le parti più aperte delle varie società civili.
Avete anche ufficializzato il “no” alla collaborazione con ricerche che riguardano gli armamenti…
Noi già avevamo la politica di non accettare progetti di ricerca volti allo sviluppo degli armamenti. Ora questa prassi entra anche nelle fonti normative del nostro ateneo, con un impegno esplicito a non fare ricerche che portino al perfezionamento di armi, armamenti, sistemi d’arma per la guerra.
Siete stati anche criticati. Un giornale ha definito “pericolosa” questa scelta. Perché?
Bisogna chiarire evitando le semplificazioni. Il rifiuto di accettare ricerche volte a sviluppare armi è netto e chiaro. Ed è anche una questione di principio: che si riallaccia a un tema culturale di grandissimo rilievo cioè il valore inalienabile della persona umana come tale. Un valore su cui si basa tutta la nostra civiltà. L’università si basa sul principio del rispetto del valore della ragione, che si trova nella persona umana. Quindi il rispetto della ragione vuol dire anche rispetto della persona umana. Questo porta al rifiuto della violenza in tutte le sue forme, al rifiuto della guerra e quindi al rifiuto di contribuire allo sviluppo di armi da guerra. Ripeto però: con ciò noi non interrompiamo alcuna collaborazione, perché non le facevamo prima.
Come vi regolate con il cosiddetto “dual use”, cioè con quelle tecnologie che possono essere applicate sia in ambito civile sia in ambito militare?
È un tema antico come l’uomo: puoi usare il coltello per sbucciare una mela oppure purtroppo anche per aggredire il prossimo. Facciamo un esempio più attuale: i droni. Sono impiegati nelle guerre in corso ma si usano anche per cercare i naufraghi in mare. Io vengo dal mondo medico e biologico. Le tecniche della biologia molecolare ci aiutano a sviluppare nuovi farmaci, ma sono quelle che si usano per fare le armi biologiche. Bloccare a priori il “dual use” vuol dire bloccare quasi tutto. La nostra prassi attuale è decidere caso per caso: se ci viene fatta una proposta si valuta, intanto chiediamo un approfondimento. Valutiamo in qualche misura anche l’azienda che lo propone, quali sono le sue attività prevalenti e poi decidiamo se procedere o meno. La nostra Costituzione — a volte lo scordiamo — afferma che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
La parola ripudio è forte. Purtroppo oggi sembra che l’unica prospettiva alla quale siamo condannati sia quella della crescita dei conflitti e dunque alla crescita a dismisura delle spese per gli armamenti...
È una questione cruciale. In un contesto in cui invece la spesa per gli armamenti viene fatta salire secondo me serve una scelta politica, una scelta etica. Anche perché la storia dimostra che le guerre portano ad altre guerre. Ci vantiamo di vivere in un’epoca di grande civiltà, ma non ne sarei tanto sicuro se guardiamo un dato brutale, quello numerico dei morti ammazzati in guerra. Il xx secolo è quello che conta tra 100 e 150 milioni di morti, una cifra nettamente superiore alla somma dei morti di tutti i secoli e millenni precedenti. È stato il secolo più tragico della storia dell’umanità. Nel film “L’avvocato del diavolo” il protagonista Al Pacino, nei panni del diavolo, nel monologo finale afferma: «Chi potrebbe negare che il xx secolo è stato mio?».
È stato un secolo nel quale abbiamo realizzato armi distruttive che hanno ucciso tanti civili. È stato il secolo della Shoah, dei genocidi.
In questo contesto la pace diventa un valore essenziale. Pace nella giustizia, ovviamente, come dicono tutti. Però come si impone la giustizia? Anche questo merita discussione.
Il Papa molto spesso è una voce che grida nel deserto. In linea con i suoi predecessori continua a dire, che la guerra è sempre una sconfitta e vedendo ciò che sta accadendo nel cuore dell’Europa e in Medio Oriente è veramente difficile non riconoscere questa posizione come profondamente realista.
Ci troviamo nello studio radiofonico intitolato a Karol Wojtyla: ricordo molto bene i tempi della prima guerra del Golfo, quando Giovanni Paolo II fu quasi l’unica tra le grandi autorità mondiali a entrare in collisione anche esplicita con il presidente degli Stati Uniti dell’epoca dicendo che quella non era la via. A tanti anni di distanza vediamo che non ha risolto niente, anzi ha causato tutta una serie di problemi a cascata che forse addirittura hanno peggiorato il quadro. Sembra che per molti sia comodo perdere la memoria su ciò che provoca la guerra. Dovremmo essere più coscienti di come dobbiamo lavorare per la pace.
C’è un ruolo e un compito delle università per tentare di orientare verso la pace, anche come costruzione e negoziato? Viviamo in un tempo di totale assenza di creatività diplomatica…
Rappresento un’università che ha attivato per prima in Italia un corso in Scienze della pace, dove l’idea è proprio quella di fornire anche tecniche di soluzione dei conflitti. Abbiamo fondato insieme ad altri la Rete delle università italiane per la pace. Questo aspetto è fondamentale nella formazione perché se vogliamo batterci per la pace dobbiamo considerare l’aspetto tecnico e culturale, per insegnare principi e aspetti giuridici delle tecniche negoziali. Senza tacere ovviamente che alla base ci vuole una scelta etica, mettendo al centro la persona umana, concreta, reale. Siamo figli di una cultura scientifica e tecnologica di grandissimo valore che ha però un aspetto riduzionistico, una sorta di nuovo materialismo in versione moderna. Ma se l’uomo è fatto soltanto di molecole, il bene e male che fine fanno? L’università secondo me ha il compito di non nascondere quelli che una volta erano i problemi filosofici. Dobbiamo trovare il posto giusto per i valori umani fondamentali, per il rispetto della persona umana. Dire che non facciamo ricerca sulle armi è un segno che vogliamo muoverci in questa direzione.
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