Eutanasia, Gambino: il rischio è ridurre tutto a una rigida attuazione di protocolli
di Alberto Gambino
Il Parlamento italiano si appresta a discutere “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”. Il testo si propone di raccogliere le indicazioni della sentenza n. 242 del 2019 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, a certe condizioni, agevola l’esecuzione del proposito suicida di un paziente. La Corte, nella stessa sentenza, ha invitato il Parlamento a legiferare.
Un testo normativo, che legittimi la compartecipazione al suicidio di un essere umano, non lascia spazio ad alcuna approvazione. Né, di per sé, lo si può considerare ineluttabile in ragione dell’invito a legiferare della Consulta. In realtà, il controllo di legittimità sulle leggi da parte della Corte costituzionale non impone al Parlamento l’adozione dell’esercizio del potere legislativo.
Nel prendere atto che la Camera dei deputati ha, comunque, deciso di avviare la discussione sul ddl e che — nelle intenzioni — i proponenti intendono recepire le indicazioni della richiamata sentenza n. 242 del 2019, pare opportuno valutare la coerenza del testo a tali prescrizioni.
La Corte costituzionale indica espressamente sette requisiti: 1) che il proposito suicida si sia formato autonomamente e liberamente; 2) che il paziente sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; 3) che il paziente sia affetto da una patologia irreversibile; 4) che tale patologia provochi sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; 5) che il paziente sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; 6) che le condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale; 7) che tale verifica sia preceduta da un parere del comitato etico territorialmente competente. A tali requisiti, la Corte ne antepone uno: che il paziente, prima della scelta, sia coinvolto in un percorso di cure palliative.
Marcate criticità del ddl manifestano una certa distanza dalle indicazioni della Corte. Si rileva, innanzitutto, come tra i presupposti dell’accesso a un suicidio medicalmente assistito, il ddl manchi di precisare le caratteristiche dei «trattamenti sanitari di sostegno vitale», il cui sussistere rappresenta nell’impianto argomentativo della Corte l’elemento che motiva la praticabilità eccezionale di un’assistenza al suicidio e, altresì, l’unica condizione di rilievo oggettivo che appare concretamente in grado di circoscrivere l’accesso all’assistenza suddetta.
Il ddl, inoltre, aggiunge alla sussistenza di una «patologia irreversibile», come previsto in via esclusiva dalla Corte costituzionale, anche la possibilità che la persona interessata sia «portatrice di una condizione clinica irreversibile» (art. 3, co. 2, lett. a), ampliandone l’orizzonte applicativo alle persone con disabilità e pur in assenza di una malattia. Si tratta di un salto radicale e contrastante con il disposto della Corte costituzionale, con un messaggio culturale particolarmente insidioso: anche la vita di chi versa in condizione di menomazione clinica può legittimare l’agevolazione di un intento suicidario.
Circa il ruolo del medico e del Comitato per la valutazione clinica (art. 7) — da istituirsi capillarmente presso ogni azienda sanitaria locale — si rileva la problematicità di quanto previsto dall’art. 5, co. 8, del ddl, ove il loro disaccordo può sfociare, su richiesta del paziente, in un vaglio giudiziale, evidentemente condizionando la serenità dell’esame clinico della vicenda.
Si evidenzia con particolare preoccupazione, inoltre, come il ddl abbia travisato il richiamo della Corte alla pre-condizione dell’effettiva fruizione di un programma adeguato di medicina palliativa. Nel ddl tale condizione pregiudiziale si realizza in una mera certificazione (“rapporto”) redatta da un sanitario con la sommaria indicazione che la persona è genericamente a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative (art. 5, comma 3), in contraddizione anche con l’inquadramento legislativo della medicina palliativa nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza e la sua qualificazione quale risorsa ordinaria da affiancarsi a qualsiasi trattamento terapeutico in condizioni di sofferenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, secondo il disposto della Corte, «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». Dunque, la Consulta prescrive che soltanto dopo l’attivazione di un percorso di palliazione e terapia del dolore, al paziente possa essere consentita una scelta suicidaria assistita.
Secondo il ddl, poi, «Gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla presente legge» (art. 6, co. 4); il che impone (come previsto nei commi precedenti dell’art. 6) la previsione dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario. Il tema è cruciale e riguarda il ruolo del Servizio sanitario nazionale (Ssn), cui la sentenza n. 242/2019 assegna una funzione di controllo procedurale circa la sussistenza dei requisiti dell’assistenza al suicidio, senza invece attribuire alcun obbligo di assicurare attraverso il personale sanitario l’esecuzione di suicidi assistiti. A detta della Corte, dunque, nessun coinvolgimento diretto di medici e, pertanto, nessun problema — neppure astratto — di obiezione di coscienza, rimanendo «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Il ddl ribalta la prospettiva della Corte costituzionale trasformando l’aiuto al suicidio in una sorta di pratica sanitaria inclusa nei livelli ordinari di assistenza, che si cristallizza — come ricordato — nella presenza diffusa dei Comitati di cui all’art. 7, con tutti gli evidenti riflessi consequenziali sul piano del messaggio sociale. Il che impone (come indicato nel ddl) la previsione dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario; previsione, che, peraltro, appare lacunosa e indebitamente parziale (lo si evince dalla persistenza di un obbligo di assistenza nella fase precedente l’intervento).
Un coinvolgimento diretto e capillare delle strutture sanitarie aprirebbe a veri e propri protocolli e prassi mediche di enorme impatto sulla percezione collettiva. Non può tacersi, in questo senso, l’inquietudine che tutto ciò finisca per rappresentare una spinta verso scelte esiziali drammatiche ed esito di solitudine esistenziale, che certamente non è nelle intenzioni degli stessi proponenti del ddl.
In definitiva, il testo ora all’esame della Camera anziché far valere una prospettiva solidaristico-relazionale verso i problemi del fine vita scivola in una rigida procedimentalizzazione di protocolli di risoluzione di quei problemi, orientata a procurare la morte del paziente.
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