Trent’anni fa l’indipendenza di Slovenia e Croazia e l’inizio della guerra nei Balcani
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Quel giorno di fine giugno di trent’anni fa, l’onda lunga del crollo dei regimi comunisti in tutta Europa inizia a trasformarsi per la Jugoslavia in una sanguinosa guerra civile. Già alla morte del presidente Tito, nel 1980, la federazione socialista delle sei repubbliche dei Balcani -nata nel 1945 - aveva iniziato a scricchiolare in modo preoccupante. Il Kosovo, regione a statuto speciale della Serbia e a maggioranza albanese, aveva chiesto lo status di repubblica. In tutti gli anni Ottanta gli shock economici, con l’inflazione a tre cifre, il tasso di crescita in calo per la prima volta dal dopoguerra e la scoperta di un enorme debito estero accumulato da Tito, si sommano a quelli politici.
Le manifestazioni a Lubiana e l'ascesa di Milo?evi?
Il socialismo non funziona più da collante ideologico e i rappresentati delle diverse repubbliche non riescono a prendere decisioni comuni. Nel dicembre 1989 viene eletto presidente della Serbia Slobòdan Milo?evi?, da tre anni leader del Partito comunista serbo, e i rapporti con Slovenia e Croazia divengono sempre più testi. Già nel 1988, a Lubiana, si erano svolte manifestazioni di massa contro la presenza dell’esercito federale, al vertice del quale i serbi erano la maggioranza. Intanto, nelle diverse repubbliche le prime elezioni multipartitiche in molti casi portano al potere i partiti nazionali.
I referendum del 23 dicembre e del 19 maggio
In Croazia la Krajina, regione a maggioranza serba, nel 1991 chiede il diritto alla secessione da Zagabria, ma nel referendum del 19 maggio il 93,24 per cento di oltre 3 milioni di croati, vota sì ad uno Stato sovrano e indipendente che formi “un’associazione di Stato sovrano con le altre ex repubbliche jugoslave”. Il riferimento all’indipendenza non è troppo esplicito, ma è chiaro, come quello del referendum del 23 dicembre 1990 in Slovenia, con un risultato simile.
L’intervento dell’esercito in Slovenia e Croazia
L’esercito federale interviene subito in Slovenia, ma la reazione della difesa territoriale e le pressioni internazionali, dopo la cosiddetta "guerra dei dieci giorni", lo costringono a ritirarsi in Croazia dove i combattimenti diventano sempre più violenti. A caduta, il 15 settembre anche la Macedonia dichiara l’indipendenza e il 15 ottobre il parlamento della Bosnia-Erzegovina vota una dichiarazione di sovranità, approvata da croati e bosniaci musulmani, mentre i rappresentanti serbi lasciano l’aula. All’inizio del 1992 comincia la guerra in Bosnia, mentre si combatte ancora in Croazia.
Medved: la richiesta iniziale era solo più democrazia
Oggi in Slovenia è Festa nazionale, che celebra la dichiarazione d’indipendenza di 30 anni fa. Lo era anche per la Croazia, che da due anni però l’ha spostata al 30 maggio, giorno in cui - era il 1990 - si riunì per la prima volta il nuovo parlamento croato che avrebbe deliberato l’indipendenza. Ripercorriamo le vicende di quei giorni e quello che successe dopo, con lo storico croato Marko Medved, 47 anni, che a Rijeka/Fiume insegna Storia della Chiesa, e lavora nell’Arcidiocesi istriana.
Professor Medved, perché Croazia e Slovenia proclamarono l'indipendenza dalla Federazione jugoslava 30 anni fa? Quanto pesarono il rifiuto dell'egemonia serba sulla federazione, accresciuto con Milo?evi?, e lo sviluppo economico più forte dei due Paesi rispetto al resto della federazione?
Il 25 giugno di trenta anni fa i parlamenti della Croazia e della Slovenia, appartenenti fino ad allora alla Repubblica Federale Socialista della Jugoslavia proclamarono l'indipendenza dalla Jugoslavia, che all’epoca era costituita da sei repubbliche con un'ampia autonomia. All’inizio le richieste slovene e anche croate riguardavano una maggiore democratizzazione del Paese e non una piena indipendenza. Ma a Belgrado trovarono solo chiusure e una politica di ancor più forte centralizzazione. Sì, erano gli anni di crisi economica in Jugoslavia e le ragioni economiche avevano pesato, ma non in maniera decisiva. Le dichiarazioni di indipendenza di Zagabria e Lubiana erano la conseguenza dei cambiamenti politici, dato che le repubbliche occidentali della Croazia e della Slovenia all’epoca avevano già avuto governi eletti liberamente nelle elezioni democratiche dopo il crollo del comunismo, mentre negli Stati orientali della Jugoslavia il comunismo era rimasto al potere, cavalcando però il nazionalismo, soprattutto serbo, capeggiato da Slobodan Milosevic.
Al contrario della Slovenia, dove la guerra con Belgrado durò solo 10 giorni, quella della Croazia fu una guerra molto sanguinosa, almeno fino alla primavera del 1992, quando gli interessi di quello che restava della Federazione jugoslava si concentrarono più sulla Bosnia...
In Slovenia, alla dichiarazione d’indipendenza seguì un breve periodo di confronto bellico tra Lubiana e l’Armata popolare jugoslava, legato soprattutto al controllo dei confini esterni, verso l'Italia e verso l'Austria. Ma la cosa si risolse molto presto. Invece per la Croazia la situazione fu alquanto peggiore, perché seguirono mesi di guerra tra Zagabria e gli autonomisti serbi, che con l'appoggio dell'armata jugoslava presero molto presto il controllo di quasi un quarto del territorio della Repubblica Croata. Ricorderà l’assedio della città croata di Vukovar e anche il bombardamento di Dubrovnik, l’antica Ragusa. Nel gennaio del 1992 l’Unione Europea riconobbe l’indipendenza delle due Repubbliche, quella croata e quella slovena, con una soluzione diplomatica voluta ed appoggiata anche dalla Santa Sede. Allora a capo della diplomazia vaticana c'era l’arcivescovo Jean Louis Tauran. In Croazia si arrivò ad un cessate il fuoco che durò praticamente fino all'estate nel 1995 anche se con qualche problema durante quei 4 anni. Nonostante questo, in Croazia ci furono centinaia di migliaia di profughi e moltissimi danni. Nel frattempo la situazione si complica ulteriormente, dato che scoppia la guerra in Bosnia, con grandissime stragi, basti ricordare Sarajevo e Srebrenica, e oltre centomila morti. Nell’agosto del ’95 la Croazia, con una guerra lampo, libera dall’occupazione serba l'entroterra dalmata e i territori occidentali della regione della Slavonia, mentre le parti orientali della Repubblica Croata, a ridosso del confine con la Serbia, vengono reintegrate pacificamente, mediante le Nazioni Unite nel gennaio del 1998. Va detto che gran parte della comunità serba che viveva in Croazia sarà costretta all’esilio, in quell’ estate del ‘95. Quell’anno si trova anche la soluzione per interrompere la guerra in Bosnia: gli accordi di Dayton, nella seconda metà del ’95, siglarono il cessate il fuoco, ma in pratica legittimarono la pulizia etnica e sono causa di problemi fino ad oggi.
Durante tutti gli anni di conflitto furono commesse atrocità sui civili da ambo le parti, anche se forse le milizie serbo-croate primeggiarono nell’ orrore. E poi in Bosnia oltre alla guerra tra bosgnacchi musulmani e i serbo-bosniaci, ci furono scontri tra croati bosniaci e bosgnacchi, soprattutto a Mostar. Oggi, atrocità come i bombardamenti sui civili a Mostar sono riconosciute dalla maggioranza dei croati?
Riguardo alle responsabilità croate, si tratta di rappresaglie e di vendette nei confronti della minoranza serba all'interno della Croazia e soprattutto in relazione alla guerra di liberazione del ’95, ma anche, dall’altra parte, dei crimini dei croati della guerra in Bosnia ed Erzegovina. È difficile rispondere in quale misura tali crimini vengano riconosciuti. Direi che una parte della società, della cultura e del mondo accademico lotta per questa autocritica croata. Chi si rifiuta di farlo, e sono in parecchi quelli che hanno difficoltà nel fare quest’autocritica, si nasconde dietro logiche nazionaliste erronee, secondo le quali chi è stato attaccato, chi è sotto occupazione, non può commettere crimini. Io da cristiano direi che non si pone il problema di come commemorare le proprie vittime e come individuare la colpa presso altre comunità. Ma di come commemorare le vittime appartenenti ad altre comunità e come riconoscere le colpe all'interno della propria comunità, sia nazionale che religiosa. Ed è un imperativo per tutti noi.
Molti storici croati criticano Tudjman, il primo presidente della Croazia indipendente e definiscono il suo come “autoritarismo e sciovinismo” più che come sano nazionalismo. Lei condivide queste critiche?
A Franjo Tudjman, che oltre ad aver portato la Croazia all’indipendenza ed averla liberata dall’ occupazione dei serbi nel 1995, è stato a capo della Croazia dal 1990 fino alla sua morte, alla fine del 1999, si muovono critiche soprattutto riguardo alla politica nei confronti della Bosnia ed Erzegovina, e per le carenze democratiche durante il suo lungo governo in Croazia. Come storico, Tudjman lo vedo piuttosto come un politico dell'Ottocento, come una guida di un movimento nazionale e non come un politico moderno. Perché ha condotto la trasformazione della Croazia dal socialismo alla democrazia liberale, al capitalismo con però molte lacune, molti problemi di cui oggi paghiamo ancora le conseguenze.
Quale ruolo ha svolto la Chiesa croata durante il conflitto e poi nella fase di ricostruzione e riconciliazione? Ha saputo frenare le spinte nazionaliste esasperate dalla guerra?
Durante la guerra il comportamento è stato molto vario. Metterei in primo piano la figura di un vescovo, non tanto noto, un francescano, Sre?ko Badurina, che nonostante fosse a capo di una diocesi, quella di Sebenico, in parte occupata dai serbi, non mancava di alzare la propria voce con interventi concilianti, pacifici ed anche ecumenici, anche durante la guerra. Anche il cardinale Franjo Kuhari?, arcivescovo di Zagabria, si oppose alla politica di spartizione della Bosnia e ricordo che fece un appello ai croati, nel 1995, a non commettere atti vendicativi nei confronti dei serbi. Ma in molti non seppero distanziarsi dal nazionalismo, alcuni neanche oggi. Tra gli esempi encomiabili vorrei citare anche il mensile dei francescani di Sarajevo “Svjetlo Rije?i” (La luce della Parola), che giocò un ruolo molto positivo. Riguardo alla questione del nazionalismo, durante il comunismo la Chiesa Cattolica spesso sentiva come proprio compito quello di tutelare e conservare l'identità nazionale croata. Ma una volta costituito lo Stato croato, in molti sono stati incapaci di capire che da quel momento c'erano altre strutture preposte a tale compito. Pertanto molti nella Chiesa, durante la guerra e pure fino ad oggi, continuano a pensare che sia loro compito promuovere l'identità nazionale, a volte anche sfociando nel nazionalismo. Spesso alcuni politici giocano la carta del nazionalismo e con questo nazionalismo coprono illegalità e nefandezze varie: difendono i propri interessi, quelli delle proprie lobby, e non il popolo. Tutta la società civile dovrebbe essere impegnata nel decostruire questa narrazione. La Chiesa cattolica è chiamata a dare il proprio apporto per giungere a questa maturazione che gioverebbe alla riconciliazione tra croato-cattolici, serbo-ortodossi e bosgnacchi musulmani.
Un’analisi molto lucida. In estrema sintesi, come è cambiata la Croazia dalla fine della guerra con gli accordi di Dayton del 1995?
Dopo la guerra, la Croazia ha cercato di tornare alla normalità. Ma la situazione era contrassegnata da problemi economici, causati dall'abbandono di un modello di sviluppo socialista e l'arrivo dell'economia di mercato, dal fallimento dei grandi impianti industriali e dal mancato arrivo di nuove attività economiche. E anche da alcune carenze democratiche, durante gli anni Novanta, che caratterizzavano il governo del presidente Tudjman. La Croazia, anche per queste ragioni, non fece parte del gruppo dei Paesi di Vi?egrad, e a differenza della Slovenia, diventata membro dell'Unione Europea nel 2004 assieme ad Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e i Paesi baltici, con molto ritardo entrò nell’Unione Europea. Il Paese dovette impegnarsi molto per processare i criminali di guerra, per rafforzare la propria società civile e le strutture democratiche, per entrare nell'Unione Europea solo nel 2013.
Dal primo luglio 2013 Zagabria è nell'Unione Europea. Che bilancio si può fare di questi primi 8 anni in Europa?
Guardando le statistiche a livello europeo, la Croazia è il fanalino di coda dell’Ue. Dopo l’entrata nell’unione c’è stata un’ondata di emigrazione di giovani, c’è stato un vero e proprio spopolamento di varie regioni, soprattutto rurali. I problemi attuali del Paese sono legati alla creazione di nuovi posti di lavoro, ai tentativi di aumentare la produzione, in un Paese nel quale cresce la consapevolezza che il turismo non può essere l'asse portante di un’economia. C'è anche il problema di una sempre maggiore tendenza dei cittadini di sentirsi non rappresentati dal mondo della politica e di una grande astensione dalle consultazioni politiche. Ma questi sono problemi che abbiamo in comune anche con altri Paesi europei.
Guardando a tutta l'area dell'ex Jugoslavia, per molti osservatori solo un graduale ancoraggio di tutti i Balcani nell'Unione Europea, dalla Macedonia alla Bosnia, potrà pacificare e stabilizzare la regione. Lei cosa pensa?
Questi territori, dove si intrecciano popoli, religioni e culture differenti sono molto delicati e secondo me sono molto importanti. Oserei dire che si tratta di un laboratorio per i grandi problemi con cui l'Europa fa o dovrebbe fare i conti. Da storico, ricordo che lo scoppio della Grande Guerra è legato proprio a Sarajevo. E la Croazia dovrebbe fare di più per promuovere la politica di collaborazione tra l’Unione Europea e i Balcani, soprattutto Bosnia, Serbia e Macedonia. L’ integrazione di questi Paesi all'interno dell'Unione Europea sarebbe una cosa molto importante per la pace, per la stabilità per il progresso di questi territori. Inoltre vorrei dire che la Croazia è sì membro dell'Unione Europea, ma mi sembra ( anche se questo problema è comune ad altri Paesi europei) che vi sia una grande carenza di nozioni elementari, nell'opinione pubblica, su come è nata l'Unione Europea. Non si conoscono i valori dell'Unione Europea, quelli che chiamiamo i principi fondanti dell'Unione: bisognerebbe ricordare a tutti che è nata dalle ceneri dei nazionalismi che portarono alla Seconda Guerra Mondiale: Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ulteriore passo avanti nella causa di beatificazione di Robert Schuman, cattolico nato e cresciuto tra l’identità francese e tedesca, uno dei padri fondatori dell'Unione Europea. Questa consapevolezza che l'identità cristiana e cattolica è più ampia dell'identità nazionale dovrebbe spingerci a processi di maturazione e di convivenza. Promuovere il progresso, da queste parti, significa convincere la comunità che lo sviluppo del nostro vicino, è anche nel nostro interesse, in quanto è garante di una pace nel futuro. Costruire un futuro senza nazionalismo sarebbe davvero importante per questi territori. Qui per i cattolici si pone innanzitutto l'obbligo di intensificare i rapporti ecumenici tra cattolici e ortodossi, cioè tra croati cattolici e serbi ortodossi, e i rapporti interreligiosi tra cristianesimo e islam.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui