In un docufilm, l’abbraccio del Papa ai malati di Huntington
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
I passi leggeri sul palco dell’Aula Paolo VI, le mani che si intrecciano per sostenersi nella danza e nella felicità di sentirsi parte di un’umanità che non si nasconde più. C’è questo negli occhi di bambini, ragazzi, dottori, ricercatori quel 18 maggio 2017 in Vaticano, prima dell’. Una giornata raccontata nel docufilm “Dancing at the Vatican”, “Ballando in Vaticano” () e che è possibile guardare gratuitamente su Youtube. E’ disponibile in sei lingue: francese, inglese, italiano, portoghese, spagnolo e tedesco.
Chi è su quel palco ha a che fare con la malattia Còrea di Huntington. Malattia rara che nel suo nome richiama proprio il ballo, il termine infatti deriva dal greco e significa “danza corale”: puntuale riferimento ai movimenti involontari, imprevedibili rapidi, scattanti di chi ne è affetto. Comunemente è conosciuta anche come “il ballo di San Vito”, martire cristiano che avrebbe guarito il figlio di Diocleziano dall’epilessia e che, nel Medioevo, veniva invocato perché intervenisse per guarire le malattie nervose.
Non uno ma tutti
Danza e malattia sembrerebbero due cose inconciliabili ma è la speranza a far volare, a rendere leggere giornate pesanti. La speranza di una cura e la speranza che si venga riconosciuti per quello che si è: persone prima di tutto, al di là di malattie invalidanti che nessuno ha scelto di avere. Elena Cattaneo, tra i protagonisti del docufilm, è senatrice a vita dal 2013, ma è anche una studiosa che ha dedicato la sua vita alla malattia di Huntington. Ha passione per il suo lavoro ma anche dedizione ai pazienti a cui sente di dover dare risposte. Aveva scritto al Papa perché un malato chiedeva udienza. “Perché solo uno? Tutti hanno diritto di incontrare Francesco”. La risposta ricevuta mobilita anime, cuori generosi, impegna notte e giorno. In 120 vengono dal Sud America, circa 80 i malati, in particolare da un’area del Venezuela in cui la malattia raggiunge un’incidenza fino a 500-1000 volte superiore che in altre parti del mondo.
Il valore inestimabile della persona
Giorni fa è stata celebrata la Giornata internazionale delle persone con disabilità. Papa Francesco ha ricordato che la fragilità appartiene a tutti. Secondo la senatrice Elena Cattaneo questo è un concetto da non dimenticare:
R. - C'è sempre una strada e una speranza nel momento in cui c'è l’accettazione da parte di chi ti sta intorno. Accettazione e riconoscimento dell'importanza della tua esistenza a prescindere da chi tu sia, da dove ti trovi. Quindi è importante che ci sia una giornata in cui si celebra la profondità della forza, dell'accettazione che una società deve avere nei confronti di tutti.
A che punto siamo con la ricerca su questa malattia, ci sono stati dei passi importanti ma adesso qual è lo scenario?
R. - Il gene responsabile di questa malattia è stato identificato nel 1993, grazie all'intuizione e alla forza di una donna che si chiama Nancy Wexler. Lei ha intuito che questa malattia genetica che uccide alcuni neuroni del nostro cervello, era particolarmente presente in alcuni Stati dell'America Latina. Aveva letto che, in particolare in Venezuela, nella zona del Lago Maracaibo c’erano villaggi dove si registrava un grande incidenza della malattia. Immaginiamo diecimila persone, 4mila avevano i movimenti motori alterati, disturbi cognitivi, depressione. Negli anni ‘80 ha avviato un’impresa conoscitiva fatta di scienziati, studiosi che lei ha portato in Venezuela, riuscendo con il tempo a conquistare la fiducia di quelle persone, convincendole a donare il loro sangue per cercare di capire attraverso il loro Dna, qual era il gene malato. Per 15 anni tutti hanno studiato il Dna di quelle persone per andare a capire dove nelle 3 miliardi di lettere che compongono il nostro Dna stesse l'incidente. Era una cosa pazzesca che qualcuno avesse il coraggio di cimentarsi, è come immaginare di impegnarsi a costruire un'autostrada, la Milano-Reggio Calabria, dotati solo di una paletta e di un secchiello. E poi una volta costruita, capire che in un punto di quella autostrada c'è un incidente ma non sapere dove. Oggi dove siamo? Facendo un salto velocissimo di 20 anni di ricerche e di altre conquiste oggi possiamo dire che ci sono delle strade importantissime, aperte, molto avanti anche dal punto di vista clinico. E soprattutto c’è una strada che mira a silenziare il punto dell'incidente nel genoma. In laboratorio si è ricostruito un pezzettino di Dna che, iniettato, è capace di riconoscere lungo tutto quel genoma solamente il punto dell'incidente. Nel momento in cui riconosce il gene malato, si lega quel pezzettino di Dna che funziona da silenziatore genico. Il gene resta ma viene spento nella sua tossicità.
Nel 2017 è nata la prima sperimentazione clinica dell'uomo, di fase 1, e i risultati sono stati positivi, nel senso che non c’è stato alcun effetto tossico. L’azienda ha poi avuto l'autorizzazione dalle agenzie regolatorie a saltare la fase due e ad andare subito alla fase 3, nella quale sono coinvolti molti Paesi. E quindi questa è una storia enorme, la novità per questa malattia che ha subìto, nel corso della storia, uno stigma, una discriminazione enorme è che questa malattia adesso ha una strada clinica forte dal punto di vista scientifico e medico che si sta portando avanti, ovviamente non sappiamo e non conosciamo i risultati della sperimentazione clinica e non è detto che l’evoluzione sia positiva, comunque ci sono delle strade importanti che si stanno percorrendo.
Quello che emerge nel docufilm è l’emarginazione nei confronti dei malati. Su questo fronte quanto c'è da lavorare?
R. – C’è tutto da fare, soprattutto nei luoghi più disagiati e quando alla povertà si aggiunge la malattia ovviamente i problemi si centuplicano, quando la malattia si mostra con queste disabilità, quindi anche con questi disturbi motori, le gambe che vanno in ogni direzione, i muscoli della faccia che si muovono in continuazione, il naso che si contorce, l’incapacità di controllare i movimenti volontari del proprio corpo, subentra la discriminazione e in alcuni casi c'è anche il disprezzo, la non considerazione e la non comprensione. In America Latina spesso i malati sono considerati posseduti dal demonio ma in realtà in queste persone c'è solamente una malattia biologica, c'è un problema biologico. Questo ci ricorda quanto ingannevoli possono essere i nostri giudizi sugli altri, quanto distorti sono le apparenze, quindi la discriminazione è tantissima e continua ad esserci. Metterei questo argomento in cima ai nostri doveri di esseri umani per capire la condizione dell'altro e offrire comprensione e riconoscimento della disabilità.
Oggi viviamo un tempo di pandemia nel quale abbiamo tutti sperimentato sentimenti comuni anche a quelli che provano i malati cioè la vulnerabilità, la voglia di una vita normale, la speranza in un futuro e in un domani…
R. – Abbiamo tutti sperimentato il senso di vulnerabilità che in tanti di noi era sconosciuto e che ha fatto comprendere quanto l'uomo sia indifeso nei confronti della natura, nei confronti della malattia. Da una parte si percepisce il senso della vulnerabilità e dall'altro non possiamo dimenticarci l'assoluto privilegio di cui noi nel 2020, in questa parte del mondo, abbiamo. Possiamo beneficiare delle competenze di tanti medici e infermieri, del personale sanitario nei nostri ospedali e un domani della possibilità di un vaccino, che però deve essere esteso a tutto il mondo.
Questo docufilm ricorda un momento importante nella storia dei malati di Huntington, cioè l'incontro con Papa Francesco. Nel rivolgere a voi un discorso, ha sottolineato che “la fragilità non è un male e la malattia, che della fragilità è espressione, non deve farci dimenticare che agli occhi di Dio il nostro valore rimane sempre inestimabile”. Che momento è stato quello per voi?
R. - Quello è stato il momento che ha cambiato la vita di tutti noi, nell’Aula Paolo VI. Quelle parole hanno ricordato che c'è un ruolo e un posto per tutti e che in questo posto siamo uno di fianco all'altro e che ciascuno di noi è su questa terra per prendersi cura dell'altro. Le parole del Papa hanno rimosso la vergogna, la paura, lo stigma e la disperazione. Ciascuno si è sentito visto, abbracciato e ascoltato, non solo i presenti, in migliaia erano collegati. Non so dirle quanti messaggi sul telefono, per posta, abbiamo ricevuto, messaggi di persone da ogni parte del mondo, tutti si sono sentiti abbracciati e amati attraverso le parole del Santo Padre. E’ stato il primo leader al mondo ad aver pronunciato il nome di quella malattia, quindi da quel giorno quella malattia, quella parola, non è più associata allo stigma e alla discriminazione ma è associata alla speranza.
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