Lampedusa sette anni dopo, il ricordo di un ‘Giusto’ che salvò 47 vite
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Le braccia protese verso il cielo a chiedere aiuto: fu la prima immagine che comparve davanti agli occhi di chi accorse per primo la notte del 3 ottobre di sette anni fa a largo di Lampedusa, poche ore dopo l’inabissamento di un peschereccio partito dal porto libico di Misurata con a bordo oltre 500 persone, migranti di origine eritrea ed etiope. Oggi, a ricordare quelle braccia, ci sono dei pezzi di legno che fuoriescono dal Memoriale, in piazza Piave, che cita, una per una, le 366 vittime accertate del naufragio.
Il dolore di Vito e il suo impegno a non dimenticare
Un monumento alla memoria fortemente voluto da Vito Fiorino che, con la sua barca, la ‘Gamar’, salvò 47 persone, andando ben oltre la capacità dell’imbarcazione. Oggi continua a lottare affinché non si dimentichi una delle peggiori tragedie del Mediterraneo. Vito Fiorino, 71 anni, falegname di Sesto San Giovanni, da decenni trapiantato a Lampedusa dove gestisce una gelateria, da sette anni rivive quella notte e il dolore di non aver potuto salvare più persone: per questo ha lavorato tanto per il memoriale, inaugurato lo scorso anno, che riporta i nomi dei morti. Oggi Vito è un Giusto, per decisione di Gariwo, la foresta dei Giusti, organizzazione no-profit che ha inciso il suo nome su una targa così come quelli di altri Giusti che hanno operato per il bene.
Un memoriale per ridare dignità alle vittime
“Mi addolorava – racconta a Pope – sapere che i deceduti fossero andati sepolti nei cimiteri agrigentini con un numero dall’1 al 366, o 368, c’è una disputa di due numeri. Volevo ricordare queste persone, ridare loro la dignità cancellata quella notte del 3 ottobre. I pezzi di legno del memoriale li ho fatti recuperare dall’imbarcazione che andò a fondo, sono pezzi di legno della bara di questa gente”. Il racconto di Vito è doloroso, interrotto da sospiri. Ricorda bene tutti i momenti di quella notte, ricorda “i cadaveri che galleggiavano”, i salvagenti lanciati in mare nel buio della notte, le mani e i corpi “scivolosi perché sporchi di gasolio”. Vive ancora il dolore per quelle due donne lontane che non è riuscito a salvare, perché in quel momento impegnato nel salvataggio di tre ragazzi più vicini, ma “non si potevano fare distinzioni”. Ricorda anche bene il rientro in porto, il silenzio suo e dei suoi amici a bordo con lui, “non c’erano né fiato né parole nelle nostre bocche”. E ricorda la cerimonia funebre nell’hangar dell’aeroporto, le bare allineate e davanti le quattro bianche, piccoline.
Il parroco, il 3 ottobre non può restare solo un ricordo
Dopo quella tragedia si ripetè “mai più morti in mare”, venne rafforzato il dispositivo per il pattugliamento del canale di Sicilia, nacque l’Operazione Mare Nostrum per prestare soccorso alla persone, attiva dal 18 ottobre del 2013 sino al 31 ottobre dell’anno successivo. “Sembrava che nulla dovesse più permettere una cosa del genere – dice don Carmelo La Magra, parroco dell’isola – sembrava che si dovesse fare di tutto per soccorrere le persone in mare, arrivò Mare Nostrum, arrivarono le ong, chiamati ‘gli angeli del mare’”. A 7 anni da quel momento la situazione è peggiorata molto. "Ora si colpevolizza chi soccorre - aggiunge il sacerdote - sempre più gente muore, si sospettano i migranti e, dopo tanti anni, ancora non si pensa a vie legali e sicure per far venire in Italia o in Europa la gente che ha bisogno”. Il rischio è, spiega ancora, che se quel 3 ottobre resta solo un ricordo “non sarà più utile, serve a placare un poco le coscienze, ma in realtà ricordare i morti del 3 ottobre, tutti quelli che ci sono stati prima e dopo quella data e che, purtroppo, continuano ad esserci, serve a prendere coscienza della nostra responsabilità e del valore di ciascuna vita”.
Il Papa e l’incessante richiamo ad amare i fratelli
Ciò che non è mai cambiato in questi anni è la preoccupazione di Papa Francesco che, subito dopo la sciagura, parlò di “vergogna” chiedendo di pregare Dio “per l'anima delle vittime del naufragio al largo delle coste di Lampedusa". La sua voce non ha mai smesso di ricordarci che i migranti sono i nostri fratelli, il nostro prossimo. Il primo viaggio di José Mario Bergoglio eletto Pontefice fu a Lampedusa, era l’8 luglio del 2013 e già da quelle prime parole fu chiaro il pensiero che avrebbe accompagnato il suo pontificato, quando mise in guardia dalla “globalizzazione dell’indifferenza”. Di quest’anno invece, nella Messa per l’anniversario del viaggio, il dolore per la versione “distillata” di quanto accade nei “lager di detenzione in Libia, a chi arriva con la speranza solo di attraversare il mare”. Nel volto dei migranti si riconosce il volto di Gesù, è il suo costante richiamo.
Francesco ricorda che Gesù chiama a servire il prossimo
“Il mondo dei migranti – prosegue don Carmelo – è quello che ci interpella più da vicino e il Papa da sempre, da subito, lo ha riconosciuto e ne ha fatto uno dei pilastri del suo pontificato, ma non per farne un motto o uno slogan, ma per ricordarci che il cristianesimo non lo possiamo vivere indipendentemente da quello che la storia ci presenta, non è una teoria applicabile allo stesso modo in tutti i tempi e in tutti i luoghi della terra. Gesù ci chiama a servire il nostro prossimo, cioè la persona che abbiamo davanti in quel preciso momento, e il prossimo, il fratello, come il Papa ci insegna a dire, al momento è la persona migrante e mai come adesso, in questo tempo anche di covid, avrebbe dovuto insegnarci che siamo tutti sulla stessa barca, così Francesco ci ha detto quando, il 27 marzo scorso, ci ha invitato alla preghiera. Siamo tutti uguali, tutti fragili e tutti dobbiamo sostenerci allo stesso modo”.
Ogni anno l’isola rivive il suo contatto con la morte
A Lampedusa, il 3 ottobre, si vive sempre un clima particolare, racconta ancora don Carmelo. “Sembra che, nel momento in cui sorge il sole del 3 ottobre, si riviva quasi fisicamente quello che è avvenuto, un grande silenzio avvolge tutti quelli che ricordano quell'evento che, per un posto piccolo come Lampedusa, ha segnato un contatto forte con la morte”. Quest’anno, a causa della pandemia, sull’isola non si svolgono manifestazioni pubbliche a ricordare la data. Come ogni anno si tiene una celebrazione ecumenica in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche, a cui prendono parte i familiari delle vittime e alcuni sopravvissuti, ragazzi, ragazze, donne e uomini che oggi chiamano 'father' Vito Fiorino che per loro, non è solo chi li ha salvati, ma è appunto un ‘padre’. “I loro messaggi si chiudono sempre con un ti amo”, confida con commozione Vito, che non smette di ringraziare il Signore per il premio da lui concessogli in questa vita.
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