Afghanistan, da 101 anni alla ricerca della pace. 16 fotografi per Emergency
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Il 19 agosto del 1919, al termine della terza guerra afghana, re Aman Ullah proclamò l’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna, che, pur vittoriosa, la concesse con il trattato di Rawalpindi. Oggi, 101 anni dopo, la festa dell’indipendenza non è ancora quella della liberazione dalla guerra, da conflitti che in questo secolo di vita del Paese sono stati soprattutto interni, a partire dalla rivolta delle tribù del 1928.
Trattative prima tra Usa e talebani, poi anche col governo afghano
I 38 milioni di abitanti di questo Paese dell’Asia meridionale, in gran parte montuoso e senza sbocco sul mare, e della sua capitale Kabul, in passato nota come il "crocevia dell'Asia centrale", guardano con speranza, ma anche senza troppe illusioni, alle trattative iniziate a febbraio tra gli Usa di Trump e i ribelli talebani, che prevedono il ritiro di tutte le truppe straniere, Nato compresa, entro il luglio 2021, e anche a quelle più recenti tra il governo afghano e gli “studenti” delle scuole coraniche.
Nel 2020 più di 1200 vittime tra i civili
Perché dal 29 febbraio e dalla firma dell’accordo con gli Stati Uniti, i talebani hanno lanciato un cinquantina di attacchi al giorno, ed Emergency, l’ong fondata dal chirurgo italiano Gino Strada per la cura delle vittime delle guerre e della povertà, calcola che dall’inizio dell’anno 1282 civili abbiano perso la vita a causa di questa guerra iniziata più di 40 anni fa.
Il nodo dello scambio di prigionieri
L' accordo voluto fortemente dal presidente Trump non impone infatti un cessate il fuoco, né una riduzione della violenza, e i talebani sono convinti di poter continuare il loro conflitto con il governo di Kabul, a patto di non colpire soldati stranieri. Il nodo è la liberazione di 5 mila prigionieri ribelli promessa dagli Stati Uniti, in cambio di mille uomini delle forze di sicurezza afghane. L’inizio dei colloqui di pace dovrebbe comunque essere imminente, anche se pochi giorni fa la negoziatrice filo-governativa Fawzia Koofi è stata ferita in un attentato.
In 21 anni, Emergency ha curato più di 6 milioni di feriti
In questa situazione di “estrema instabilità”, come la definisce Emanuele Nannini, vice direttore dell’ufficio operativo di Emergency, l’associazione attiva in Afghanistan dal 1999, curando più di 6 milioni e mezzo di persone, chiede al mondo di tornare a guardare a Kabul, Jalalabad, Herat, Mazar-i Sharif, Bamiyan e ai monti del Pamir attraverso gli occhi di 16 fotografi internazionali. Da Jim Huylebroek, spesso in prima pagina sul New York Times, a Matthieu Paley, che al Pamir ha dedicato un libro fotografico, agli italiani Giulio Piscitelli e Ferdinando Rollando, guida alpina e fotografo delle montagne afghane, hanno donato alcuni dei loro scatti più emblematici a supporto degli ospedali di Emergency nel Paese.
Ventiquattro scatti, attimi di normalità
Oggi l’ong gestisce centri medico-chirurgici a Kabul, Lashkar-gah e nella Valle del Panshir, un centro maternità ad Anabah e una rete di 38 centri sanitari e di posti di primo soccorso. Si potrà sostenere la sua attività acquistando le stampe fotografiche di 24 foto, che vedete anche in questo servizio, disponibili sul sito di Ishkar, impresa sociale inglese nata a Kabul. Scatti che raffigurano gli attimi di normalità e i paesaggi sospesi di un Paese tormentato da una guerra che dura da più di 40 anni, e che, ricorda Emergency, finora “ha causato un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e oltre quattro milioni di profughi”.
Nannini: l'errore di non investire nella società civile
Emanuele Nannini, che in Afghanistan ha vissuto sei anni e torna regolarmente per seguire le attività di Emergency, descrive così a Pope la situazione del Paese e l’iniziativa di raccolta fondi.
R. - Tutte le feste dell’indipendenza in Afghanistan sono sempre feste a metà. Il Paese è riuscito a liberarsi da tante potenze che lo hanno invaso, dei decenni passati, ma purtroppo non è mai riuscito a liberarsi dalla guerra. Il conflitto continua da tanti decenni e oggi più che mai sta soffrendo per le conseguenze dirette di questi combattimenti. Ci sono buoni segnali dai negoziati di pace tra talebani e americani e negli ultimi giorni ci sono notizie incoraggianti su un possibile negoziato tra talebani e governo centrale di Kabul, ma purtroppo quella che vivono gli afghani quotidianamente è una situazione di estrema instabilità. Il conflitto ormai è diffuso in tutte le zone del Paese e tutte le parti della società ne pagano le conseguenze. Attentati, combattimenti, bombardamenti sono il pane quotidiano per la popolazione afghana ormai da tanti anni.
Alcuni osservatori denunciano che anche le reazioni governative agli attentati, con attacchi aerei, colpiscono, soprattutto, nelle zone occupate dai talebani, i civili…
R. – Si, purtroppo c’è stata sempre scarso riconoscimento dei danni sulla popolazione delle “guerre di precisione” degli “attacchi chirurgici”. Quando si combatte tutti cercano di avere la meglio. Questo sta succedendo sicuramente anche adesso tra talebani e forze di sicurezza afghane: da un lato ci sono attentati, spesso contro obiettivi civili, o che coinvolgono la popolazione civile, dall'altro ci sono attacchi di rappresaglia, da parte del governo afghano, per cercare di fermare l'avanzata dei talebani. Le milizie ufficiali non hanno formazione e preparazione sufficienti per questo tipo di combattimento. Spesso è molto irruento nelle azioni portate avanti contro i ribelli.
Voi Ong, lavorando in mezzo alla gente, sentite che vuole la pace, ma quale pace? Sono disposti anche ad accettare un ritorno del regime dei talebani?
R. – Sicuramente il Paese è molto diviso al suo interno, in base al gruppo etnico e alla religione. Quello che chiedono prevalentemente tutti gli afghani è un ritorno alla pace e la necessità di vedere il proprio Paese prosperare di nuovo e poter programmare un futuro. Cosa che oggi non è assolutamente possibile. Da un lato il governo afghano ha dimostrato di non essere in grado di controllare tutto il Paese e nemmeno di portare la giustizia e le istituzioni in molte parti remote del Paese. Questo invece i talebani stanno riuscendo a farlo, perché hanno un controllo molto capillare del territorio, soprattutto nelle zone remote del Centro, del Nord e della parte orientale del Paese. Sicuramente è auspicabile che sia un governo formato dalla società civile, non dai gruppi armati, dai signori della guerra che hanno sempre governato il Paese, o sia da parte dei Talebani che da parte del governo afgano.
E in tutto questo che responsabilità hanno gli Stati Uniti con la loro contraddittoria politica, che prima ha appoggiato i mujaheddin e talebani per contrastare l’occupazione russa e poi non è riuscita ad impedire la loro radicalizzazione?
R. – L’errore più grande è stato quello di non investire nella società civile e prevedere un processo dal basso verso l'alto di controllo democratico del Paese. In questi 20 anni di presenza degli americani e della Nato in Afghanistan il potere è sempre stato distribuito tra i vecchi “Signori della Guerra”, che hanno devastato il Paese per tantissimi anni. Basta pensare alle onorificenze che ha preso il generale Dostum qualche settimana fa: insignito del più alto grado militare, è diventato un maresciallo dell'Esercito. E Dostum e per tutti gli afghani è il più grande emblema dell’ingiustizia, della guerra civile e degli abusi fatti sulla popolazione. Finché questi personaggi continueranno a far parte dello scenario politico del Paese, sarà molto difficile prevedere un futuro che possa far rialzare la popolazione civile.
Gli attentati alle strutture, come è successo al reparto maternità dell'ospedale di Medici Senza Frontiere di Kabul, e poi il Covid-19. Come operano oggi in questa situazione ong come Emergency?
R. – A complicare la situazione già drammatica del Paese c’è l’azione di alcuni gruppi terroristici completamente fuori controllo come l’Is, che fa attentati soprattutto a Kabul, per colpire la popolazione sciita e senza fare tanta distinzione tra target militari e target civili. Questo fa sì che il livello di sicurezza di tutti quelli che intervengono nel Paese deve essere sempre molto alto e questo costringe a volte gli operatori umanitari a non riuscire a garantire l'accesso a tutta la popolazione. Dall'altro lato c’è il Covid, che ha bloccato un po' tutto il mondo e che ha sicuramente reso più difficile l'arrivo di operatori umanitari o la spedizione di aiuti da parte delle varie ong dal resto del Mondo. Per fortuna noi di Emergency abbiamo giocato di anticipo, e abbiamo rifornito i nostri tre grandi centri chirurgici e un centro di maternità e una quarantina di cliniche che abbiamo in giro per il Paese. Siamo riusciti a mandare staff, materiali e farmaci e tutto quello che serve per gestire le nostre strutture in anticipo. Grazie a queste misure tutelative, siamo riusciti a garantire tutti i nostri servizi anche in questi mesi, quando molti ospedali e molte altre ong sono stati costrette a interrompere le loro attività. La situazione purtroppo rimane ancora molto complicata, in Afghanistan ci sono tantissimi casi di Covid, anche se pochi vengono effettivamente testati e la popolazione sta perdendo molta fiducia nel sistema sanitario pubblico.
Veniamo all'iniziativa dei 16 fotografi internazionali che hanno donato i loro scatti per Emergency. Dai loro scatti viene fuori un Paese quasi normale…
R. – Quello che si evince dalle foto, che sono un bell’esempio di rappresentazione artistica del Paese, è che gli afghani sono un popolo molto indomito e molto resiliente. Nonostante le sofferenze e i decenni di guerra, sono ancora un popolo che cammina a testa alta e che cerca di avere un futuro migliore. Noi con questa partnership con Ishkar volevamo portare di nuovo l’attenzione su un Paese che è stato dimenticato per tante volte, ma adesso, soprattutto con la pandemia, è passato un po' sotto i riflettori. Per ricordare a tutti da un lato le sofferenze che il Paese sta vivendo, ma dall'altro fare anche capire che gli afghani sono un popolo che ha voglia di vivere meglio, ha voglia di pensare a un futuro di pace. Se il virus del Covid si è diffuso così facilmente dobbiamo ricordarci che in un mondo globale anche la guerra si può diffondere facilmente. Perciò per noi era importante ricordare questo Paese, il suo conflitto e fare in modo che pian piano si possano mettere dei piccoli semi, affinché la pace possa arrivare anche in Afghanistan.
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