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Licenziamenti a Marcianise. Il vescovo di Caserta: si uccide il lavoro al Sud

Troppo spesso le aziende guardano solo al profitto e lasciano il deserto dietro di sé. La preoccupazione del vescovo di Caserta per i lavoratori di Marcianise, la cui unica risorsa è la solidarietà reciproca

Stefano Leszczynski – Città del Vaticano

Confermati i 190 licenziamenti dello stabilimento Jabil di Marcianise. La multinazionale statunitense, specializzata nella produzione di componenti elettroniche, dopo aver interrotto bruscamente i negoziati con il Governo e le parti sociali, ha formalizzato la fine del rapporto di lavoro con i dipendenti. Una doccia fredda per quanti ritenevano vicina la possibilità di un accordo anche per l’estensione del periodo di cassa integrazione, garantita dall’esecutivo con le misure adottate per contrastare gli effetti della pandemia. Un duro colpo per i lavoratori di Marcianise, già fortemente provati dalla difficile situazione occupazionale nella regione. Sconcerto per la decisione dell’azienda è stata espressa anche dal vescovo di Caserta, monsignor Giovanni D’Alise.

Il lavoro è dignità

“Il caso Jabil non è il solo caso in Italia in cui le multinazionali dopo aver fomentato tante speranze lasciano il deserto dietro di sé”. L’amara constatazione di monsignor Giovanni D’Alise, vescovo di Caserta, arriva a poche ore dalla rottura delle trattative da parte dei vertici della multinazionale statunitense decisa a portare a termine i 190 licenziamenti nello stabilimento di Marcianise. “Io sono stato vescovo 10 anni ad Ariano Irpino e anche lì le imprese hanno preso i soldi dello Stato e poi, al momento opportuno, non è rimasto più niente. Qui, non è diverso: c’è una generazione intera di giovani che corrono il rischio di non vedere neanche un giorno di lavoro e tanto più è difficile in prospettiva futura”.     

Ascolta l'intervista a monsignor Giovanni D'Alise

Monsignor D’Alise, come interpretare quello che sta avvenendo a Marcianise, in un periodo come quello presente caratterizzato dalle conseguenze della pandemia

R.  - Sono costernato. Costernato, perché mi è sembrata una mossa studiata al tavolino. Dopo un anno e mezzo di trattative il problema si è molto acuito ed ha generato in alcuni un po' di scoraggiamento. Allora, si è cercato di dare l'ultimo colpo, per indebolire le istanze degli operai e avere meno reazioni. Sono costernato perché dopo questi tre mesi di isolamento e, soprattutto, dopo tre mesi in cui si sono dovuti fare tanti sacrifici, oltre al virus, oltre ai morti, trovarsi alle prese con lo spettro della disoccupazione che incombe da un momento all’altro fa veramente male.   

L’esecutivo aveva dato segnali per estendere la cassa integrazione per altre 9 settimane. A cosa attribuire la chiusura da parte dei vertici aziendali?

R.  - Questo doveva essere il momento di ‘sfruttare’ - lo dico in senso positivo - tutte le possibilità che l'Europa e anche il governo stanno dando per sostenere sempre di più l'occupazione. Il punto fondamentale è questo. Infatti, sarà proprio la questione del lavoro il tema al centro della crisi economica; il lavoro che manca in Campania e nel Meridione in generale, che è già fortemente in difficoltà rispetto alle regioni del Nord. In una situazione del genere intervenire con dei licenziamenti, togliere un’entrata fondamentale alle famiglie significa ucciderle, significa togliere loro la dignità. Tutto questo mi dà molta preoccupazione, anche perché so che i sindacati si stanno impegnando in maniera energica, però è molto importante che anche i sindacati comprendano da che parte stare, perché non sempre è chiarissimo da che parte stanno. 

 

Un incoraggiamento ad essere più determinati nella loro azione?

R.  - Sì, perché dobbiamo renderci conto - e lo stiamo vedendo anche nel nostro rapporto con l'Europa – che nessuno è sincero e nessuno lavora per l'Italia, ma tutti vogliono approfittare della debolezza dell'Italia e questo ricade sul lavoro: c’è gente che sposta le fabbriche per meri guadagni e, ancor peggio, non c'è nessuna considerazione per la dimensione umana. La stessa realtà che si vive a Taranto. Così sfianchi le persone, che poi non ce la fanno più a combattere; perché per difendere il lavoro ci vuole un cuore enorme, la piena coscienza che al lavoro è legata ogni cosa, lì c'è la tua dignità, lì c'è la possibilità di fare una famiglia, lì c'è la possibilità avere dei figli, lì c'è la possibilità di realizzare il progresso sociale. Quando togli tutto questo l'hai uccisa una persona, figuriamoci una famiglia.   

Come hanno reagito le comunità parrocchiali della sua diocesi di fronte a questa situazione?

R.  - Tutti si sono attivati per quanto è possibile, come sempre. Abbiamo avuto un incremento enorme di persone che sono venute alle nostre comunità. Sempre di più abbiamo una chiesa che sta crescendo e che condivide. Sono comunità che stanno crescendo nella solidarietà, non solo a livello religioso, ma soprattutto umano.

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27 maggio 2020, 15:03