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Giada Aquilino - Città del Vaticano

鈥淣on so se purtroppo o per fortuna nella società sudafricana, soprattutto quella che vive nelle township, c鈥�è una certa abitudine a convivere con le malattie. E si è visto anche nell'approccio che la gente ha avuto con il coronavirus: questo ennesimo virus si mette un po鈥� in coda con gli altri problemi, perché se non è il Covid-19 il problema qui è la Tbc o l鈥橦iv, i cui tassi sono ancora altissimi鈥�. Il padre scalabriniano Filippo Ferraro parla a Pope da Cape Town, quando il Sudafrica rimane, assieme all'Egitto, tra i Paesi con il più alto numero di casi di Covid-19 del continente, con circa 5 mila contagi e 93 morti. Il missionario, originario di Bassano del Grappa e giunto nel 2014 a Città del Capo, è il direttore esecutivo del centro studi SIHMA, Scalabrini Institute for Human Mobility in Africa, incarico che di fatto lo porta con altri quattro confratelli, un messicano, un filippino, un congolese ed un brasiliano, a dedicarsi alla migrazione in tutti i suoi aspetti, fornendo un鈥檃ssistenza ai migranti che va dai servizi legali al welfare, dall鈥檃ccesso al mondo del lavoro al ruolo delle donne nelle società, dai corsi di lingua inglese alla formazione nel campo dei diritti umani, oltre che alle normali attività pastorali e a un progetto di casa famiglia con 25 bambini e ragazzi.

Le misure di contenimento

A fine marzo, nel contesto della lotta contro il coronavirus, il Sudafrica è stato messo in quarantena dal presidente Cyril Ramaphosa. Ora le autorità hanno annunciato che in tutto il Paese sarà obbligatorio indossare una mascherina a partire dal 1° maggio, data d'inizio del graduale allentamento delle misure restrittive prese fin qui: nelle scorse settimane erano stati schierati altri 73 mila soldati dopo i 2.500 della fase iniziale.

Langa, Kayelitsha, Gugulethu e Nyanga

A Cape Town, racconta padre Ferraro, c鈥�è una situazione 鈥渄i tensione鈥�. 鈥淟a città - spiega - ha quattro grosse aree, che qui chiamiamo township e corrispondono a quelle che in altre zone del mondo indicano una bidonville o una favela, nelle quali la gente più povera vive stipata in casette di lamiera di tre metri per tre. Si chiamano Langa, Kayelitsha, Gugulethu e Nyanga. La popolazione migrante non abita in queste zone, perché sarebbe pericoloso, ma si concentra in altre aree degradate oppure varie famiglie affittano una casa, dove occupano ognuna una stanza鈥�. Eppure, aggiunge, i migranti e gli abitanti delle township 鈥渧ivono nella stessa maniera, fanno i parcheggiatori, fanno parte del 鈥榖usiness鈥� dell鈥檌mmondizia, cioè la separano e poi la rivendono a chi fa commercio di legno o vetro鈥�.

Dispiegate le forze dell鈥檕rdine

Molte testimonianze in questo periodo di lockdown, dall鈥橢cuador all鈥橧ndia, passando per il Camerun, riferiscono come le misure prese per contenere il Coronavirus di fatto rendano sempre più difficile a chi vive alla giornata di procurarsi cibo e generi di prima necessità. 鈥淐on i provvedimenti necessari per arginare il Coronavirus adottati dal governo, che ha stabilito distanziamento sociale e misure d鈥檌giene, si è creata - dice il missionario scalabriniano - una specie di pentola a pressione enorme, perché in luoghi come le township non si riescono normalmente ad avere né il distanziamento sociale né il rispetto delle misure igieniche: parliamo di baracche che non hanno i servizi, i bagni sono pubblici e si trovano all鈥檌nterno dell鈥檃gglomerato. Il governo ha concentrato lì il dispiegamento delle forze dell鈥檕rdine per impedire il movimento di queste persone: se il contagio arrivasse nelle township sarebbe un disastro, perché qui il sistema sanitario funziona come negli Stati Uniti, perlopiù tramite assicurazione. Ma, al contempo, anche per un controllo sociale perché con queste persone chiuse così e senza la possibilità di guadagnarsi da vivere鈥� permane il rischio di 鈥渞ivolte e tensioni鈥�.

La vita tra le baracche

È pensabile, aggiunge padre Ferraro, che per far arrivare il cibo nelle township al momento 鈥渟ia concesso un qualche flusso o movimento controllato鈥�. 鈥淧oi c鈥�è da dire che esiste tutta una economia informale nelle township: molti stranieri, come somali o etiopi, all鈥檌nterno hanno dei piccoli negozi, delle baracche, in cui è possibile comprare di tutto, dalle mele alle patatine agli accessori per i telefonini, si chiamano 鈥榮paza鈥�, e a volte - dato che non parlano la lingua locale, ce ne sono 11 ufficiali in Sudafrica - danno addirittura da lavorare a gente del posto. Queste attività erano state chiuse per due settimane, all鈥檌nizio dell鈥檈mergenza, poi sono state riaperte, proprio perché per gli abitanti sono un luogo dove procurarsi cibo鈥�. Tra le misure adottate, prosegue il missionario, 鈥渋l governo inoltre ha, secondo alcuni, dato la possibilità ad un certo numero di abitanti delle township di spostarsi in altre aree meno congestionate o, secondo altri, ha forzato tali trasferimenti鈥�, anche se - precisa - chi è stato spostato vuole tornare dove ha sempre vissuto.

Piccoli lavori

Sul fronte migranti, padre Filippo ricorda che quelli che gli scalabriniani incontrano quotidianamente a Cape Town vengono dal Congo, dal Malawi, dallo Zimbabwe, in generale dai Paesi francofoni del continente e dall鈥檃rea del Corno d鈥橝frica. 鈥�È difficile fare una stima, ma in Sudafrica possiamo parlare approssimativamente di 3 milioni di migranti, più o meno radunati nelle grosse aree di Durban, Johannesburg e Cape Town鈥�. 鈥淰ivono di piccoli lavori, come guardiani, domestici, addetti alle pulizie, giardinieri鈥�, ma nel pieno dell鈥檈mergenza da Coronavirus 鈥渕olti sono veramente in difficoltà: per loro il problema più grande adesso è pagare l鈥檃ffitto鈥�. Ed è per questo che 鈥渁bbiamo avuto una serie enorme di richieste di sussidi e di aiuti鈥�.