In carcere tra impegno e rinascita, nel segno dell’umanitĂ
Davide Dionisi e Benedetta Capelli – Città del Vaticano
“Solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, ad un vero recupero della persona”: così don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, dopo il colloquio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede nella sede dell’Ispettorato in via delle Mantellate a Roma. “Gli istituti di pena, che per molti vengono intesi solo come luoghi di emarginazione e luoghi per custodire la sicurezza della società, possono divenire – afferma don Grimaldi - una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a far nascere e ad interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone”.
Non chiudere tra le sbarre la speranza
Accoglienza, recupero, mai puntare il dito contro chi ha sbagliato ma spalancare il cuore offrendo amore e misericordia: sono queste le strade per una vera trasformazione della persona, secondo don Raffaele. Per il ministro Bonafede è molto importante il ruolo dei cappellani nel percorso di rieducazione perché svolgono un lavoro che è nell’interesse della collettività. Attraverso di loro, infatti, i detenuti scoprono la possibilità di cambiare, imparano la legalità “non come dovere ma come amore per le regole e come segno di rispetto nei confronti degli altri”.
Colombo: insegnare ai detenuti il rispetto delle regole
Volto noto dell’inchiesta “Mani Pulite” che portò alla luce il giro di tangenti nella politica e nell’imprenditoria, il magistrato Gherardo Colombo ha fondato nel 2010 l’Associazione “Sulleregole”, che si dedica alla riflessione pubblica sulla giustizia e nell’educazione alla legalità. Ogni anno incontra circa 250 mila studenti in tutta Italia e proprio per tale attività ha ricevuto il Premio nazionale “Cultura della Pace 2008”. “E’ molto importante con i detenuti – spiega Colombo - avere una relazione nella quale ci si riconosce reciprocamente. La prima cosa è far vedere che le regole si possono rispettare e il rispetto delle regole è vantaggioso soprattutto in carcere. E’ un passaggio fondamentale”.
“La mia visione del carcere è cambiata”
Nel racconto Gherardo Colombo ripercorre la sua esperienza con i detenuti. “Un conto – sottolinea - è vedere un carcere e un conto è riconoscere le persone che ci sono dentro”. L’ex magistrato ricorda di aver sempre messo in primo piano la dignità degli imputati e le loro garanzie soprattutto quando subivano un trattamento pesante come la prigione. “Ad oggi – racconta – non sono riuscito a dare una risposta a tanti interrogativi che mi hanno accompagnato in questi anni. Io non riesco a trovare il principio per cui si toglie un padre al proprio figlio piccolo, spedendolo in prigione, perché ha commesso una rapina. Dov’è il principio che rende giusto il fatto di togliere il padre al bambino? Ho vissuto sempre con questi interrogativi, pur tenendo conto delle esigenze di sicurezza per i cittadini ed il rispetto delle vittime. Ho fatto però un percorso che ha compreso letture e persone e attraverso questo devo dire che la mia ottica è cambiata veramente tanto. Adesso penso che il carcere non solo sia inutile ma anche dannoso”.
La storia di Pietro: bisogna solo guardare avanti
Consigliere di Confcooperative Roma, imprenditore nel campo della movimentazione delle merci nel porto di Gioia Tauro poi l’accusa di associazione mafiosa, l’arresto e la condanna a 11 anni di reclusione. E’ la storia di Pietro D’Ardes che dal carcere però rinasce a nuova vita. “Ero un imprenditore a livello europeo, sono rimasto coinvolto in una vicenda giudiziaria che ha comportato sequestri, confische e condanne. In carcere ho condiviso momenti con persone che mai avrei pensato di frequentare – racconta Pietro – e mai avrei pensato di vivere l’esperienza del carcere di massima sicurezza”. Ma lì tra le sbarre, Pietro pensa al suo futuro e non si arrende. “Mi sono messo a studiare, mi sono iscritto a Giurisprudenza e in tre anni e mezzo sono riuscito a conseguire il titolo accademico, dando un senso a questo mio percorso. Quando poi sono uscito dal carcere, con qualche risparmio che mi aveva lasciato mia madre, ho messo su uno studio legale ed ho iniziato il praticantato. Ho intenzione di fare l’avvocato. Oggi – spiega - non sono più l’imprenditore di un tempo quando mi sentivo come un capitano di vascello o un generale, oggi voglio continuare il percorso iniziato dentro il carcere ma che ha preso il via con la condanna e sta continuando fuori di lì fino, possiamo dire così, alla guarigione. Di fatto il condannato, per me, è come un malato che si deve curare e deve fare una convalescenza”.
Nel carcere si vede la vita che non si può più toccare
Pietro non nasconde i momenti difficili vissuti in prigione. “Ho assistito anche a dei suicidi, sono stati anni molto duri, ci sono stati dei momenti di grande sconforto, di desolazione e devastazione. Il carcere è una delle prove più forti che ci siano, per me, è una prova più dura anche della malattia. Mentre un malato è rassegnato, in carcere una persona è sempre vigile con la mente, però si trova in un mondo parallelo. E’ dentro le mura di un istituto penitenziario ma fuori – sottolinea Pietro - la vita continua ed è come se vedesse quella vita che non può più toccare. In quel momento è come parcheggiato”. “Una persona che è stata in carcere – insiste - porterà sempre quella cicatrice, ma è necessario trasformarla in qualcosa di positivo, per dare una testimonianza, aiutare gli altri e far capire che comunque nella vita non si può tornare indietro. Il carcere va vissuto in una certa maniera con dignità. Bisogna sapere accettare, rispettare le persone che fanno parte dell’istituto penitenziario, scontare la propria pena e in questo frangente capire gli errori. Io personalmente – conclude Pietro - ho deciso di studiare la giurisprudenza per il mio futuro ma anche per capire il perché della mia condanna e quindi ho voluto andare a fondo perché si può solo andare avanti e non si può più tornare indietro”.
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