Marcolongo: alla fonte delle parole per avere cura di noi stessi e degli altri
Debora Donnini – Città del Vaticano
“La cura delle parole non è altro che cura verso noi stessi e verso chi ci è accanto”. Così la scrittrice Andrea Marcolongo in “Alla fonte delle parole, 99 etimologie che ci parlano di noi” - da poco in libreria per Mondadori - fotografa, in qualche modo, il “senso ultimo” del suo lavoro. Trentadue anni, tradotta in 27 Paesi del mondo, la Marcolongo ha conquistato il pubblico con il libro “La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco” del 2016, molto amato specialmente dai liceali. Quest’anno, quasi come un minatore che va in cerca della pietra preziosa, si è avventurata in questo viaggio per scoprire le etimologie di queste 99 parole, legandole a 9 colori, molto particolari, espressi in lingua greca. Si va da “labirinto” a “migrante”, da “amore” ad “angoscia” fino a “linguaggio”. Non un gioco letterario, il suo, ma una ricerca di bene e di bello, perché – scrive – “alla sciatteria il dire è cura”. L’abbiamo intervistata per Pope:
R. – Sono partita dall’accorgermi come le mie parole, innanzitutto, e le parole che sentiamo, in qualche modo sono “rotte” o scheggiate, non comunicano più o comunicano soltanto in modo frammentario. È come quando si ha un problema nella vita con qualcuno, che si ama o al lavoro, e si dice “andiamo alla radice del problema per risolverlo”, ho pensato che un rimedio fosse andare alla radice delle parole per cercare di ricomporle in modo tale da essere chiari, onesti, netti – oserei dire – prima con noi stessi e poi con gli altri.
Tra le 99 parole, c’è la parola “fiducia”. Da dove viene, qual è la sua radice?
R. – La parola “fiducia”, che rimanda al latino fides, una radice che rimanda alla fede. È un impegno grandissimo: non soltanto fidarsi di qualcuno, perché diciamo sempre in questo modo, come se fosse una merce da dare, la fiducia, ma è soprattutto qualcosa da custodire, la fiducia altrui. Così come la fede, prevede una promessa: nel Medio Evo si diceva fidanza, e da questa parola deriva anche la parola fidanzato e essere fidanzati è un impegno solenne, proprio come lo erano i Promessi Sposi manzoniani. Non è assolutamente, quindi, un’avventura passeggera. Ecco, anche la fiducia richiede una cura costante, un forte impegno.
Un’altra etimologia curiosa è la parola “ingenuo”, che significa libero…
R. – E’ proprio così. Sono tantissime le curiosità che ho scoperto scrivendo questo libro. La parola ingenuo è una di quelle che amo di più, perché significa essere libero, libero di essere chi si è senza il bisogno dell’artificio, della maschera. Quindi, un ingenuo non è uno sprovveduto: dalla stessa parola deriva, ad esempio, “ingegnere”, cioè colui che progetta, grazie all’opera di ingegno.
Qual è la radice greca?
R. – Viene dal latino genium, dal greco ghenos (γένος), che significa “stirpe”, ma stirpe di uomo libero…
Un'altra parola fra le 99 che ti ha colpito, andando a cercare la radice?
R. - Quella che forse amo di più è la parola “leggere” che rimanda a tutta una gamma di parole che utilizziamo oggi senza nemmeno percepirle. La radice comune viene dal greco “lego” (λέγω) che significa sia dire, parlare – e quindi in greco viene utilizzato come alternativo di “femì” (φημί), forse il verbo più celebre per dire l’atto di parlare – ma allo stesso tempo vuol dire anche “leggere”, “scegliere”, “raccogliere”.
Il suo primo libro, “La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco”, ha avuto un grande successo, specialmente fra i giovani. Questo nuovo libro denota ancora un’attenzione per il mondo dei giovani?
Pur non essendo rivolto agli studenti, ai liceali, prestare una particolare cura, attenzione ai ragazzi, è qualcosa che amo fare. Non soltanto come investimento per il futuro, per la generazione che fra qualche anno guiderà le sorti del nostro Paese e del mondo, in una contemporaneità così difficile come quella che stiamo vivendo, ma allo stesso tempo per me è un modo di ridare loro fiducia, nel senso etimologico che dicevamo. Quindi questi giovani secondo me raccontati spesso in maniera troppo superficiale e sbrigativa, come incapaci di esprimere sé stessi, in balia delle tecnologie, senza una spina dorsale, sono invece ragazzi molto “verticali”, molto dignitosi nel loro vivere la gioventù in un’epoca senza certezza, in cui viene detto loro di non credere a niente, di non fidarsi di nessuno e di non aspettarsi niente, se non il peggio, e credo che un riscatto passi anche attraverso le parole.
Qual è il tuo rapporto con la fede?
R. – È qualcosa che mi è proprio, che custodisco ogni giorno di più come antidoto per non smarrirmi e per restare la persona che sono, senza cedere a seduzioni che mi porterebbero lontano.
Il cristianesimo sente molto forte questa forza della parola. Non a caso nel Vangelo di Giovanni è scritto “In principio era il Logos", il Verbo. Ti ha colpito anche questa riflessione del Vangelo?
R. – Certamente. Non credo che avrei potuto scrivere questo libro, se all’università non avessi studiato i Vangeli, perché le nostre parole, che utilizziamo in italiano e nelle lingue romanze, assumono il significato preciso che utilizziamo ogni giorno, proprio grazie all’incontro con la Parola rivelata.
Cosa ti colpisce di più delle parole scelte da Papa Francesco?
R. – Sono una grandissima “fan” di Papa Francesco e quello che io provo ogni volta che l’ascolto è l’etimologica sorpresa. Sorprendere significa non tanto fare gesti eclatanti o far sorridere ma significa, attraverso l’entusiasmo (ἐνθουσιασμός) – una parola bellissima: etimologicamente vuol dire avere, sentire Dio dentro di sé – catturare, portare con sé qualcuno: il credente, ma non soltanto. Mi piace il modo di comunicare, di mettere in comune di Papa Francesco, mi piace il suo osare: trovo che sia assolutamente doveroso e allo stesso tempo senza però mai perdere la compostezza. E mi piace assolutamente il suo andare sotto la superficie con un linguaggio semplice. C’è una frase bellissima che dice: “Le parole semplici sono le più difficili perché sono quelle che ci costringono a non mentire mai”.
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