Camerun. Monsignor Kome: il dialogo nella verità porta sempre buoni frutti
Cecilia Seppia e Xavier Sartre – Città del Vaticano
Si è chiusa in Camerun, nel Palazzo dei Congressi di Yaoundé, la settimana di lavori dedicata al grande incontro di dialogo nazionale, svoltasi alla presenza di leader religiosi e politici, e voluta per cercare di trovare soluzioni alla crisi che da anni sta attraversando il Paese, e che dall’autunno del 2017 ha preso le sembianze di una guerra civile. Gli scontri sono infatti all’ordine del giorno da quando i separatisti delle regioni anglofone, visti i fallimenti nella trattativa politica col governo centrale, hanno proclamato autonomamente l’indipendenza e scelto la via delle armi, provocando migliaia di morti e oltre 3 milioni di sfollati. Guardando con speranza a questo necessario confronto, all’Angelus del 29 settembre scorso, Papa Francesco aveva lanciato un forte appello incoraggiando le parti all’impegno per una pace giusta e duratura, a beneficio di tutti, ma in particolare della popolazione che si trova a vivere oltre alla minaccia del fuoco incrociato, una condizione di grave insicurezza alimentare e a subire la costante violazione dei diritti umani.
Un primo effetto del dibattito nazionale c’è stato sul piano politico. Paul Biya, presidente del Cameroun da 37 anni, ha dato ordine di liberare 333 prigionieri, attualmente detenuti per delitti commessi nell’ambito della crisi anglofona. Secondo i separatisti che vorrebbero trasformare le due province del Nord-Ovest e del Sud-Ovest in uno Stato autonomo chiamato “Ambazonia”, l’amnistia concessa non è però sufficiente. Chiedono la liberazione di tutti i prigionieri reclusi dal 2016, compresi i dieci leader condannati all’ergastolo lo scorso agosto. Raggiunto telefonicamente a Bafang, il vescovo, monsignor Abraham Kome, presidente della Conferenza episcopale camerunense, che ha partecipato ai lavori della Commissione, ha testimoniato un clima di verità e libertà d'espressione, ha rilanciato l'esigenza, emersa nel dibattito, di equiparare le due lingue nazionali, l'inglese e il francese, come primo step per poi arrivare anche ad un decentramento del potere e ad una maggiore autonomia delle regioni anglofone. "Quando abbiamo cominciato, eravamo molto sensibili all'idea che il Santo Padre avesse fatto di questo dialogo una preoccupazione spirituale", dice a Pope mons. Kome, esprimendo la soddisfazione della Chiesa per i frutti dell'incontro e anche la comunione di intenti con tutti i leader cristiani che hanno partecipato.
R. – E’ stato un dialogo fondato sulla verità: infatti, avremmo potuto trovarci di fronte a una finzione nella quale si sarebbe potuto cercare semplicemente di consolidare il potere del sistema vigente … Questa preoccupazione in effetti c’era, ma ci siamo resi conto che in realtà c’è stato un dialogo che ha promosso la verità, perché le persone sono state libere di esprimersi. Io ho partecipato ai lavori della Commissione e ho avuto chiara la percezione della libertà d’espressione per cui le persone dicevano quello che pensavano e questo mi ha molto impressionato. La resa della plenaria ha tenuto conto delle aspirazioni più profonde che sono state espresse al punto, in alcuni momenti, da contraddire il governo in carica e addirittura la Costituzione. Questo è stato rispettato per cui mi sono detto: “E’ valsa la pena”. E comunque un dialogo che ha come fine ultimo la verità è un dialogo destinato a portare buoni frutti.
Quali sono le aspirazioni profonde che hanno trovato un’eco in seno a questo grande dialogo nazionale?
R. - Sul piano specifico, le due regioni nel Nord-Ovest e nel Sud-Ovest hanno il forte desiderio di avere un po’ più di potere alla base, perché fino ad adesso il potere in Camerun è un potere fortemente centralizzato. Yaoundé è il punto sul quale tutto converge e dal quale tutto parte e questo va un po’ contro la visione anglosassone; sembrava chiaro che pur senza arrivare al “federalismo”, richiedevano quantomeno un regime speciale dove, ad esempio, non ci sarebbero più delegati nominati dal governo, e quindi la gestione delle città sarebbe nelle mani di persone elette. Intanto, si potrebbe sperimentare questo approccio in queste due Regioni, ma non si potrà fare a meno di allargare poi questo sistema al resto del Paese. Un altro desiderio è di equiparare le due lingue ufficiali del Paese, mentre in realtà il francese – e questo probabilmente perché è parlato quasi dall’80 per cento della popolazione camerunese – tende a mettere in ombra l’inglese, e quando si parla di lingua bisogna tenere conto anche della cultura di quella lingua, perché una lingua è sempre portatrice di una cultura … Quindi, sono questi aspetti che sono emersi e che hanno portato alla luce le aspirazioni più profonde.
La Chiesa cattolica supporta queste “conclusioni”?
R. – Certamente: la Chiesa è sempre affianco alla verità, della giustizia, della libertà d’espressione. Tutto quello che è emerso da questo grande dialogo non può che contribuire non solo alla pace, nell’immediato, ma poi al benessere di tutto il nostro Paese e quindi la Chiesa non può che sostenere queste conclusioni; su questi suggerimenti, la Chiesa aveva già attirato l’attenzione attraverso le sue dichiarazioni e le sue lettere pastorali, nelle quali erano contenuta questa visione.
Secondo lei, questa faccenda della decentralizzazione che è stata messa in primo piano, sarà sufficiente per risolvere il conflitto in atto?
R. – Teoricamente, sì. Purtroppo, in un conflitto come questo giocano anche forze esterne. Il punto in questione in effetti era la centralizzazione per la quale tutte le nomine vengono da Yaoundé, i funzionari non sono i “servi” o i “servitori” del popolo ma devono rispondere a chi li ha nominati a Yaoundé. I funzionari applicano quello che i vertici chiedono di applicare mentre quando le iniziative partono dalla base i funzionari – i civil servants, come li chiamano nelle regioni anglofone – sono piuttosto al servizio del popolo, della base. Dietro a tutto questo c’è anche la distribuzione delle ricchezze del Paese: in effetti, quello che arriva da queste due regioni, al di là delle ideologie, è il malessere delle popolazioni che non hanno strade, non hanno luoghi di cura, che hanno stipendi veramente bassi mentre in almeno in di queste regioni c’è una raffineria di petrolio. E per questo il popolo è abbattuto. Non è stata quindi soltanto evocata, la decentralizzazione, ma è stato spiegato anche in che modo la si intenda. Quindi penso che possano esserci i presupposti per cui – senza volere essere ingenui – la collera del popolo possa progressivamente attenuarsi per tornare all’ordine.
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