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Siria, le donne che vogliono tornare a vivere e le reduci dell'Is

La guerra in Siria dura, ormai, da oltre 8 anni. La situazione è sempre molto complessa. I venti di guerra soffiano ancora sul Paese. Ci sono donne che vogliono tornare a vivere, e altre, quelle già affiliate al sedicente Stato islamico, che devono fare i conti col loro passato. L'intervista alla giornalista Benedetta Argentieri

Eugenio Serra – Città del Vaticano

La vita e la scelta di donne che, in passato, hanno sposato la causa dello Stato islamico. è questo il tema dell'ultimo docu-film che Benedetta Argentieri, giornalista e regista specializzata in conflitti mediorientali, sta girando nel nord-est della Siria, in Rojava. Al racconto di un periodo drammatico, conclusosi con la sconfitta delle truppe jihadiste, si aggiunge oggi un presente incerto come quello delle donne siriane che vogliono tornare a vivere dopo 8 anni di guerra civile.

La sfida della reintegrazione

Le "donne dell'Is", racconta Benedetta Argentieri ai microfoni di Pope, “nella maggior parte dei casi hanno scelto autonomamente di unirsi allo Stato Islamico. Noi trattiamo queste donne come se fossero solo vittime dei mariti e dei fidanzati che le hanno trascinate nell’organizzazione, ma molto spesso non è così. Credo che donne debbano prima essere giudicate da un tribunale, che valuti il loro ruolo all’interno del gruppo terroristico, e poi si può pensare a come reintegrarle”.

Ascolta l'intervista all'Argentieri

Benedetta Argentieri, qual è la condizione delle donne siriane, e come stanno vivendo ed affrontando questa difficile situazione del Paese?

R. – Le donne siriane non sono un gruppo monolitico, perché la Siria è un Paese diviso. Nel nostro film, “I am the Revolution”, noi parliamo principalmente delle donne curde e della loro organizzazione. La rivoluzione nel Rojava, nel nord est della Siria, dei curdi, prevede una eguaglianza di genere per uomini e donne, e questo si tramuta in una pratica quotidiana, in cui le donne fanno parte attivamente della società, delle forze militari, della polizia, e di tutti i settori della società. È evidente che nel passato la condizione delle donne siriane era molto difficile. La rivoluzione ha aperto uno spazio per tutte le donne, soprattutto nel nord est della Siria, dove si sta cercando di praticare un’eguaglianza di genere, per cui ogni consiglio, ogni amministrazione, ha un co-presidente: un uomo e una donna. Questo fa sì che si possano aprire degli spazi per le donne, spazi che prima di adesso non erano concepibili.

Quale contributo stanno portando le donne alla popolazione?

R. – Portando e dando alle donne la possibilità di scegliersi un futuro che fosse anche al di fuori del matrimonio: questo è un contributo enorme, perché questo vuol dire anche che le intelligenze che le donne possono portare sul tavolo vengono finalmente sfruttate e usate per l’avanzamento di un processo democratico. L’idea è di cercare di cambiare la società, facendola divenire sempre più inclusiva.

La situazione delle donne affiliate al sedicente Stato islamico, che hanno cambiato idea e vorrebbero inserirsi nuovamente nella società, come dovrebbero essere trattate, secondo lei?

R. – Nella maggior parte dei casi, lo hanno fatto scientemente: perché volevano unirsi allo Stato islamico e vivere sotto la Shari’a, la legge islamica. Il problema è che molto spesso noi trattiamo queste donne pensando che siano solo vittime, dei mariti, dei fidanzati, che le hanno trascinate nell’Is. Invece, molto spesso non è così, e anzi loro hanno partecipato attivamente nella società. Io credo che il percorso giusto per queste donne, che nella maggior parte dei casi si sono anche macchiate di crimini, debba essere un tribunale, un tribunale che capisca e analizzi il loro ruolo all’interno del gruppo terroristico. Da lì si può pensare come reintegrarle verso dei percorsi di de-radicalizzazione. Molto spesso però – io ne ho incontrate moltissime nei campi – loro sono ancora molto radicalizzate, e anzi stanno crescendo i loro figli in nome della Jihad. Questo è il vero grande problema: come affrontare questa situazione. Molti Stati europei si rifiutano oggi di portare indietro queste donne o di rimpatriarle, ma queste persone sono cittadine europee: sono nate e cresciute nei nostri Paesi. Il problema è assolutamente politico, anche perché non si possono portare davanti a un tribunale in Germania, Francia o Inghilterra perché non c’è la possibilità di fare delle vere indagini, ecc. Quello che viene proposto nel nord est della Siria è di fare un tribunale internazionale. Credo che questa sia un’ottima idea per cercare di capire come affrontare il problema. L’ideologia è ancora molto molto forte tra i membri dell’Is, anche se la guerra è finita. Bisogna quindi affrontare questo problema. Credo che la soluzione avanzata dall’amministrazione curda o dalle forze siriane democratiche sia una soluzione plausibile: un tribunale internazionale per capire le responsabilità di ogni persona. Un altro problema è che i numeri sono altissimi. Nei campi parliamo di quasi 12 mila donne da 48 Paesi stranieri diversi: tante sono europee, e tra queste, tantissime francesi e tedesche. Bisogna quindi prendersi una responsabilità collettiva rispetto a queste persone che sono comunque figlie dell’Europa, non possiamo disconoscerle. E sicuramente lasciarle qua non è la soluzione.

È a conoscenza di  storie che con normalità stanno cercando di reagire a questa situazione?

R. – Ci sono tantissime storie che arrivano da questi territori. C’è una voglia di tornare alla normalità, una voglia di tornare a vivere, e a vivere attraverso la cultura, l’arte, la musica. Il problema è che finché la situazione non si stabilizza a livello del territorio, sarà molto complicato poter continuare a portare avanti dei progetti di riappacificazione. Le speranze sono tante e ci sono tante storie, però la situazione è estremamente complicata anche perché, come abbiamo visto ultimamente, i venti di guerra soffiano ancora sulla Siria. In realtà, la situazione è sempre molto complicata. Però si cerca di tornare a vivere: non solo sopravvivere, ma si vuole tornare a vivere.

C’è speranza per il futuro? Ci sono sbocchi futuri di pacificazione, e quale ruolo giocano, o giocheranno, le donne? Quale sarà il loro contributo?

R. – Le donne giocano un ruolo fondamentale nella pacificazione. È innegabile. Sono stati fatti passi avanti enormi nel nord est della Siria, e nel Rojava, per ciò che riguarda il ruolo delle donne.


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26 luglio 2019, 10:21