Libia, forse 100 i morti nel centro migranti. L’Unhcr: l’Europa li accolga
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Potrebbero essere un centinaio, purtroppo, le vittime dell’attacco aereo che la mattina del 3 luglio ha colpito il centro di detenzione di migranti a Tajoura, a pochi chilometri da Tripoli. Il governo libico sostenuto dall’Onu accusa del raid l’esercito del generale Haftar. A riferire la drammatica stima a Pope, quando le fonti ufficiali parlano per ora di più di 50 vittime (ma si sta continuando a scavare tra le macerie) e decine di feriti, è Valeria Fabbroni, direttore dei programmi di Helpcode, una ong italiana che opera in Libia dal 2017. Valeria ha visitato lunedì il centro di Tajoura, che ospitava circa 600 migranti provenienti dal Sudan, dall’Eritrea e dalla Somalia. I suoi collaboratori ora sono sul posto a fornire assistenza ai rifugiati che non sono stati feriti, ed è molto preoccupata per la loro situazione “accampati davanti alle macerie del centro, in una zona senza alberi né copertureâ€.
Helpcode opera in cinque centri, da Trik al-Sikka a Tajoura
Attualmente Helpcode lavora in cinque centri governativi gestiti dal Dipartimento per la lotta all’immigrazione clandestina (Dcim) del governo di al-Serraj, a Trik al-Sikka, Trik al-Matar, Al Joudeida, Khoms e Tajoura, per migliorare le condizioni di vita dei migranti. “Continueremo ad impegnarci per aiutarli per quanto ci è possibile - spiega Helpcode - ma auspichiamo l’avvio immediato di soluzioni per garantire la loro sicurezza e dignitàâ€. Sono i soggetti più vulnerabili “a subire le più grandi sofferenze per questa detenzione forzata. In particolare - ricorda la ong con sede a Genova, nata nel 1988 per ‘garantire a ciascun bambino e bambina la protezione di una famiglia, una scuola di qualità e una comunità in cui crescere’ - donne e bambini che, secondo gli ultimi rilevamenti del nostro staff, sono rispettivamente il 31% e il 6% sul totale dei detenutiâ€.
Asciugamani, coperte, kit igienici e ristrutturazione dei bagni
La ong con sede a Genova, nel suo progetto “Verso una migrazione sostenibileâ€, finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ha aiutato in due anni 4500 migranti, distribuendo beni di prima necessità e kit igienici ai detenuti dei centri, intervenendo per migliorare l’aerazione e l’illuminazione delle stanze o ripristinare i servizi igienici. Il progetto prevede anche un’attività di protezione, ovvero la segnalazione di casi specifici di vulnerabilità a Unhcr e Oim per facilitare le procedure di ritorno volontario o di corridoio umanitario per i casi più vulnerabili. Valeria Fabbroni racconta così a Pope la situazione nel centro di Tajoura, dopo il bombardamento di mercoledì mattina.
R. - Il centro di detenzione di Tajoura è stato colpito e al momento si ritiene che le vittime siano intorno alle 100 persone, più i sopravvissuti feriti che sono negli ospedali di Tripoli. La situazione di chi non è stato ferito è drammatica, al momento, perché sono più di 400 i migranti accampati di fronte a quello che fu il centro, in una zona che non ha alberi né coperture né ombreggiature. Non si sa ancora in quali centri verranno smistati: aspettiamo tutti la decisione che verrà presa dal Dcim, (la Direzione per il contrato all’immigrazione illegale, n.d.r) l’autorità libica preposta alla gestione dei centri.
Voi come Help Code assistete i detenuti in cinque centri gestiti dal Dcim. Ma tutti i centri di detenzione in Libia sono dei lager, come viene descritto da alcuni migranti che arrivano in Italia, oppure ci sono centri e centri?
R. - I centri soffrono decisamente una situazione di sovraffollamento e di strutture igieniche non adeguate a un flusso costante di persone che vengono da molti Paesi, dopo un percorso molto complicato. Le situazioni di vita sono molto difficili. Noi non abbiamo mai assistito a situazioni di violenza perpetrata contro i detenuti, ma comunque sono situazioni di vita molto difficili.
E cosa fate voi, come Help Code? La vostra mission principale è quella di assistere bambini e bambine, mentre questo progetto è rivolto ai migranti nei centri di detenzione, che sono in gran parte adulti …
R. - Questo è un progetto che esula un po’ alla mission solita di Help Code: si tratta di portare aiuto ai migranti detenuti, su due linee diverse: una è di distribuzione di beni di prima necessità per quando i migranti arrivano: asciugamani, teli, lenzuola, sapone, shampoo e altri beni di igiene femminile; la seconda linea dell’intervento è quella della riabilitazione dei bagni, delle docce, delle latrine e del sistema di aerazione e Tajoura era il centro del nostro ultimo intervento. I nostri progetti sono sostenuti dall’Agenzia italiana per la cooperazione.
E comunque ci sono anche i bambini, il 5 per cento dei bambini che sono detenuti …
R. - Certo, ci sono bambini: in numero variabile, perché alcuni sono non accompagnati e la maggior parte arrivano con le famiglie, ma c’è una percentuale di bambini in ogni centro nel quale operiamo.
Ha una storia da raccontarci, una situazione che le è rimasta nel cuore?
R. - A me piacerebbe parlarvi di Amina. Amina è una ragazza maliana che è scappata per amore con il fidanzato dal Mali, perché il loro matrimonio era contrastato; è finita nelle mani di una sedicente milizia. In un attacco le è stato dato fuoco, la ragazza è stata recuperata dal direttore di un altro centro ed è stata curata all’interno del centro di Trik al-Sikka l’anno scorso. Ce ne sono tantissime, di storie drammatiche, di dolore enorme di ogni persona, di percorsi di vita molto sfortunati, che questi ragazzi hanno avuto e che comunque spezzano il cuore quando noi abbiamo la possibilità di parlarci.
Dopo quest’ultimo attacco, il governo di al-Sarraj minaccia di aprire i centri di detenzione perché la sicurezza non è più garantita. Una soluzione può essere invece quella che chiede l’Unhcr (l’ Agenzia Onu per i rifugiati), cioè che almeno i 7 mila detenuti dei centri di detenzione legali siano presi in carico da tutta l’Europa?
R. – Certo sarebbe una prospettiva di miglioramento della situazione di queste persone, ma teniamo conto che comunque una volta sistemati 7 mila migranti la questione non è risolta, perché comunque il flusso è costante e quindi probabilmente tutti andrebbero suddivisi tra i Paesi dell’Europa, non solo questi 7 mila la cui sorte è stata particolarmente drammatica.
L'Unhcr ottiene la liberazione di 29 migranti dal centro di Gharyan
Ieri l'Unhcr ha portato 29 rifugiati eritrei e somali fuori dal centro di detenzione di Gharyan, 90 chilometri a sud di Tripoli, dove le condizioni di vita erano terribili e dove i detenuti erano sempre più a rischio per gli scontri armati ravvicinati. I rifugiati erano rinchiusi da mesi con un accesso molto limitato ai servizi, scarsità di cibo e condizioni igieniche pessime che hanno portato allo scoppio di epidemie. Sono stati integrati nel villaggio di Gharyan, dove verranno sostenuti dal programma urbano dell'Unhcr.
"Portare al sicuro chi è tenuto arbitrariamente nei centri"
Questa settimana, scrive l’agenzia della Nazioni Unite in un comunicato, "ha visto le tragiche conseguenze dei conflitti sui rifugiati e migranti tenuti arbitrariamente nei centri di detenzione. Alla luce delle violenze in corso a Tripoli e del rischio evidente per la vita dei civili, il rilascio dei rifugiati e migranti dai centri di detenzione affinché possano essere portati al sicuro è ora più urgente che mai".
De Bonis (Unhcr): dopo il rilascio, siano presi in carico dai Paesi europei
Il funzionario protezione dell'Unhcr, Andrea De Bonis, ha dichiarato all’Ansa che, agenzia auspica da tempo “il rilascio dalla detenzione dei migranti nei centri in Libia. A queste misure va affiancata una presa di responsabilità dei Paesi europei, affinché supportino dei piani di evacuazione dei rifugiati che si trovano in Libia. L'Italia sta facendo la sua parte, avendo evacuato circa 700 rifugiati dal dicembre 2017".
La storia di Amina, fuggita dal Mali con il suo Umar
Valeria Fabbroni ha raccontato così, sul blog di Helpcode, la storia di Amina, citata nell’intervista. “Amina ha vent’anni e viene dal Mali. All’inizio del 2018 si è sposata con Umar, anche lui del Mali, contro il volere della sua famiglia. La loro scelta non fu capita e nemmeno accettata dalla loro comunità. Decidono di scappare, di lasciare il loro paese alla ricerca di una vita migliore, in Europa. Durante il viaggio sono fermati da un gruppo armato, fanno parte di una delle tante milizie che si contendono porzioni di territorio libico. Vengono portati a Bani Walid – in Tripolitania, circa 150 km a sud di Tripoli in uno dei centri di detenzione non riconosciuti dall’autorità libica. In quell’inferno Amina fu torturata e porta i segni delle ustioni provocate dall’acido su tutto il corpo".
L'ultimo saluto su una panchina del centro di Trik al-Sikka
"Amina mi racconta - prosegue Fabbroni - che ancora oggi fatica a dormire a causa del dolore. L’ ho incontrata nel campo di Trik al-Sikka, uno dei campi dove interveniamo per portare beni di prima necessità e garantire accesso ad acqua e servizi igienici. In questo centro è protetta e, per quanto possibile curata, ma i segni degli abusi sono impressionanti. Amina non chiede nulla, non si aspetta nulla. Non vuole tornare indietro, nel suo paese, i genitori non glielo permetterebbero. La saluto dove l’ho incontrata, seduta, su una panchina, nella speranza che qualcosa nella sua vita possa migliorareâ€. Oggi Amina non è più nel campo di Trik al Sikka, e Helpcode non sa più nulla sulla sua sorte.
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