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Immagine simbolo di un campo minato Immagine simbolo di un campo minato 

Le mine antiuomo, bandite da 20 anni, uccidono migliaia di civili ogni anno

Giornata internazionale di sensibilizzazione e promozione della lotta contro le mine antiuomo: circa 100 milioni sono inesplose, sparse nel mondo. Intervista a Giuseppe Schiavello

Roberta Gisotti – Città del Vaticano

Sono passati 20 anni dall’entrata in vigore, il 1 marzo del 1999, del Trattato di Ottawa, che prende il nome della capitale canadese dove è stata siglata la Convenzione internazionale per la proibizione in tutto il mondo dell’uso, stoccaggio, produzione e vendita delle mine antiuomo e per la distruzione di quelle inesplose. Ad oggi sono 164  i Paesi che l’hanno firmata e ratificata, quindi l’hanno recepita nei propri ordinamenti. Il bilancio sul bando di queste armi è quindi sostanzialmente positivo, anche se la minaccia degli ordigni inesplosi, sparsi in una sessantina di Paesi, incombe sui civili, che sono quasi il 90 per cento delle vittime, per circa metà bambini.

Le mine inesplose si trovano ancora in circa 60 Paesi

Non ci sono dati certi sul numero di mine inesplose, che restano attive per 50/60 anni. Si stima siano intorno ai 100 milioni, sparse in una sessantina di Paesi: ogni anno si contano le nuove vittime, 100 mila i morti negli ultimi 15 anni, 7.200 nel 2017, in ben 49 Stati, secondo l’ultimo Rapporto 2018 dell’Osservatorio sulle mine delle Nazioni Unite.  Cifre comunque al ribasso, vista la difficoltà di censire e certificare le vittime, tra cui centinaia di migliaia di mutilati, in Paesi di conflitto o in zone di sottosviluppo.

Afghanistan, Siria ed Ucraina gli Stati più rischio

In cima alla lista dei Paesi funestati dall’esplosione di mine sono Afghanistan, Siria ed Ucraina, in piena Europa, una delle aree, nella parte orientale, in assoluto più contaminata dalla presenza di questi ordigni, come denuncia oggi l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, sollecitando l’intervento della comunità internazionale per tutelare oltre due milioni di ucraini interessati dalla contaminazione delle mine, specie rifugiati e sfollati che vorrebbero rientrare in sicurezza nelle proprie case.

L’appello del segretario generale dell’Onu: riparare i danni orrendi

Da qui l’impegno, rinnovato dal segretario generale dell’Onu, António Guterres, nel suo messaggio nella Giornata odierna, “per riparare gli orrendi danni causati dalle mine” e assistere tutte le vittime. Nel 1997, quando fu pronto il testo della Convenzione di Ottawa, fu istituita con sede a New York l’Agenzia per l’azione contro le mine (Unmas), per coordinare tutti gli interventi messi in campo dai vari enti delle Nazioni Unite e da altri organismi governativi e non governativi che forniscono servizi in oltre 40 Paesi per lo sminamento, la prevenzione dei rischi e l’assistenza alle vittime.

I programmi di sminamento e di assistenza alle vittime

Un impegno gravoso, dispendioso che richiede tempo specializzazione e risorse umane e finanziarie. Se le mine costano poco - dai 3 ai 15 dollari - per ogni dollaro speso ne servono 20 per disinnescarle.  Ma i fondi e i programmi di aiuto sono ancora insufficienti, spiega Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine.

Ascolta l'intervista completa a Giuseppe Schiavello

R. – A livello mondiale, io direi che siamo molto sotto la necessità effettiva, perché gli scenari di guerra sono molti. Consideriamo che sono anche operazioni che richiedono molto tempo. Bisogna identificare i territori e metterli in sicurezza; fare quella che si chiama “risk education” degli ordigni inesplosi alle popolazioni; soccorrere le vittime, e possibilmente reinserirle in un contesto socio-economico come soggetti attivi e non più come peso per le comunità.

Tra gli Stati che non hanno ancora aderito alla Convenzione vi sono soggetti strategici, come Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan, Iran, Israele… Quanto pesa l’assenza di questi Paesi per un ipotetico bando totale?

R. – Questo è un aspetto che in qualche modo può essere sfatato. Molti detrattori di questo Trattato continuano a dire che il fatto che questi grandi Paesi non abbiano aderito crea un problema di fondo. In realtà non è vero, perché questi Stati hanno comunque dovuto e voluto fermare la produzione delle mine anti-persona che erano state bandite. Non le hanno più potute commercializzare perché 162 Stati sono aderenti a questa Convenzione, e quindi non hanno più convenienza neanche nel produrle. C’è poi una questione di opportunità: questi Paesi oramai non vogliono essere additati come coloro che, al di là del fatto che non aderiscono alle Convenzioni di Ottawa e di Oslo - in vigore dal 2010 che ha bandito le bombe a grappolo - utilizzano armi in violazione al diritto umanitario internazionale, armi che sono comprovatamente disumane, perché colpiscono, nel 90% dei casi, i civili. Essere in qualche modo additati come gli Stati che utilizzano queste armi è una forma di stigmatizzazione che tutti vogliono evitare. Pertanto la Convenzione è utilissima e speriamo che questi Paesi decidano di aderire dando un segnale di ravvedimento anche in termini di condivisione multilaterale con gli altri Stati. In ogni caso, gli Stati Uniti, per esempio, finanziano molte operazioni di bonifica e stanziano molti fondi; per cui queste convenzioni hanno anche l’utilità di fare arrivare all’attenzione mondiale quello che è un problema che altrimenti resterebbe nascosto ai più.

Oltre ai Paesi, ci sono però molti soggetti non statali che fanno ancora uso di mine. Questo è un fronte aperto di lotta nella campagna antimine?

R. – Ci sono organizzazioni che si sono impegnate nel contattare, dove possibile, cercando di non suscitare problemi con i governi, che ovviamente non riconoscono questi gruppi, che sono considerati alla stregua dei gruppi terroristici – ad esempio le Farc in Colombia o altri gruppi in Somalia – cercando di convincerli affinché firmassero dei protocolli che in qualche modo impedissero l’utilizzo di queste armi da parte di gruppi ribelli, che comunque rimangono loro stessi vittime poi di questi ordigni, che vengono piazzati in modo disordinato e con una mentalità, una logica terroristica: non quella della difesa, del non far arrivare un esercito ad oltrepassare un confine o un valico, ma piuttosto minando case, pozzi, scuole, semplicemente per mietere vittime e per mietere semi di carneficina.

Ma chi produce queste mine che arrivano ai gruppi armati?

R. – La produzione e la vendita legale di mine è sostanzialmente ferma ed è un merito della Convenzione internazionale. Ma ci sono armi che sono state vendute in passato e non sono state utilizzate e che rimangono in qualche modo incustodite e possono essere poi portate altrove. Per questo la Convenzione prevede anche che gli Stati che aderiscono debbano distruggere tutti gli stock di mine, che hanno nei vari arsenali. È ovvio che, ove ci sono Stati che non solo non aderiscono al Trattato ma addirittura sono in condizioni di instabilità politica, questi stock diventano un pericolo per tutti, perché con l’esplosivo di queste mine possono essere costruiti altri ordigni improvvisati o usati per camion esplosivi ad uso terroristico. Questo purtroppo è il problema: queste armi vanno trovate e distrutte, anche quelle che sono negli arsenali.

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04 aprile 2019, 14:18