Polonia. ? beata Hanna Chrzanowska, luce degli ammalati
Roberta Barbi e Roberto Piermarini – Città del Vaticano
La pratica amorevole della professione infermieristica per curare il corpo, la letteratura e, poi, la preghiera per prendersi cura, invece, dell’anima: era una persona che dava importanza alla totalità dell’essere umano, Hanna Chrzanowska, la nuova Beata che considerava il proprio lavoro “un’ambulanza costante per gli sfollati”, affatto un mestiere inferiore a quello del medico, le cui arti erano esclusivamente rivolte all’aspetto sanitario. Hanna no, non si occupava solo del fisico, ma dello spirito e dell’umore dei suoi pazienti, quelli ricoverati in ospedale ma anche i malati terminali che non potevano più muoversi dalle loro case, o i poveri in condizioni disperate che affollavano le parrocchie.
Una missione che diventerà una vocazione
Grande influenza sulle scelte della Beata, proveniente da una famiglia benestante per metà protestante e per metà cattolica, imparentata addirittura con un premio Nobel, ebbe la figura della zia Zofia, infermiera a sua volta e fondatrice di un importante ospedale pediatrico. Proprio qui, quando Hanna venne ricoverata per rosolia, sperimentò direttamente la delicatezza delle infermiere e la premura di chi anticipava addirittura le sue esigenze; in seguito, durante un altro ricovero, sopportando il dolore capì che quello era lo strumento per capire meglio il paziente, e benedisse la sofferenza che la metteva in comunione con i suoi ammalati. “Fin da piccola Hanna aveva appreso dai genitori a vivere fondamentali valori umani e cristiani – è la testimonianza del cardinale Angelo Amato – questo la indirizzò a scegliere la professione di infermiera, dapprima come attività filantropica, poi come vero e proprio apostolato cristiano”.
La scrittura: un modo inconsapevole di avvicinarsi a Dio
Hanna, però, non poté subito assecondare la sua inclinazione: la scuola per infermiere era stata chiusa, così, si iscrisse all’università alla facoltà di Lettere. Anche questa, comunque, fu un’esperienza formante per lei: scriverà racconti e poesie che saranno un primo passo e insieme espressione del suo avvicinarsi al Signore. “A 30 anni la sua vita ebbe una svolta decisiva verso l’alto, verso la santità, coltivata con la preghiera, con la comunione e l’adorazione eucaristica, con gli esercizi spirituali, con la recita del Santo Rosario”, racconta ancora il porporato. In seguito la propria capacità di scrittura sarà messa anche quella a servizio della professione: oltre a scrivere manuali infermieristici sull’assistenza domiciliare, dirigerà una rivista per infermiere.
L’infermieristica domiciliare: la cura del malato a 360 gradi
Essere infermiera per Hanna era “la più profonda ragione di felicità”. Presto non le bastò prendersi cura dei pazienti in ospedale e iniziò ad assisterli in casa, inventando, di fatto, un nuovo sbocco per la professione infermieristica, che chiamava “infermieristica aperta”: si era resa conto, infatti, che tale pratica, oltre a fare bene al paziente e a sollevare un poco la sua famiglia, consentiva di liberare posti letto negli ospedali per chi aveva davvero bisogno del ricovero. Durante la Seconda Guerra Mondiale si prese carico anche degli orfani, degli sfollati, degli ebrei, ma l’occupazione nazista non ebbe il coraggio di toccarla a causa delle sue origini tedesche e della stretta collaborazione con il Metropolita di Cracovia.
L’assistenza domiciliare diventa parrocchiale
Molti poveri, però, si accorse presto Hanna, erano malati e non avevano nessuno: si rivolgevano quindi alle parrocchie. Era la fine degli anni Cinquanta, il Signore si faceva strada in lei che per convincere i sacerdoti a far entrare in parrocchia le infermiere, diceva che “agli ammalati non lavati e non riscaldati la Parola di Dio raggiunge con difficoltà”. A fine 1957 erano già assistiti 25 malati in 8 parrocchie. Divenuta membro professo delle Oblate benedettine, riuscì a fare ancora di più: far celebrare la Messa presso i domicili dei malati e, oltre agli esercizi spirituali che già da tempo organizzava per le colleghe, ne organizzò anche per gli ammalati, nella splendida cornice dell’Abbazia di Tyniec, il suo rifugio segreto dove ricaricava le forze fisiche e spirituali.
L’incontro e l’amicizia con Karol Wojtyla
“Grazie a te, Hanna, che hai vissuto in mezzo a noi, che sei stata proprio così, com’eri, l’incarnazione delle Beatitudini di Cristo, specialmente quella che dice: beati i misericordiosi!”, parlò così nell’omelia per i suoi funerali l’allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla. I due si erano conosciuti nel 1957, quando Hanna gli chiese aiuto per organizzare l’assistenza ai malati nelle parrocchie. Ricorderà sempre quel primo incontro nei suoi diari, quando lui la guardò in silenzio e con un sorriso ironico che inizialmente la fece quasi arrabbiare. Nel 1960 l’ormai arcivescovo la accompagnava a trovare i malati, prassi che divenne poi abituale anche nelle visite pastorali di Giovanni Paolo II. “La Chiesa, mediante l’opera dei suoi figli, viene incontro agli ammalati – conclude il card. Amato – donando con sacrificio e generosità, su ispirazione della nostra Beata, aiuto e protezione”.
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