Myanmar, ACS: una preghiera per la pace in un Paese stremato dalla violenza
Valerio Palombaro – Città del Vaticano
Una Giornata globale di preghiera per la pace in Myanmar, Paese devastato dalla violenza, al quale guarda con grande preoccupazione la Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre che ha indetto l’evento per oggi, primo febbraio. Benefattori di Acs e collaboratori si alterneranno in turni di preghiera, per consentire una partecipazione continua lungo 24 ore. “Siamo profondamente toccati dalla situazione in Myanmar", dichiara Regina Lynch, presidente esecutivo di Acs Internazionale. "I nostri fratelli e sorelle – spiega – soffrono per bombardamenti, fame, mancanza di elettricità e mezzi. Sacerdoti e religiosi spesso devono viaggiare per giorni per raggiungere le parrocchie più lontane, vivendo situazioni di pericolo ma, nonostante tutto, continuano a svolgere il loro lavoro”.
Nel 2021 il colpo di stato
A quattro anni esatti dal colpo di stato che depose Aung San Suu Kyi, Australia, Canada, Unione europea, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti chiedono alla giunta militare al potere nel Paese di porre fine alle violenze contro i civili e di avviare un dialogo inclusivo per una transizione democratica. Nel Paese è inoltre stato prolungato lo stato d’emergenza per la settima volta dal colpo di stato del 2021. "La crisi in Myanmar è sempre peggiore, sia a livello sociale ed economico, che dal punto di vista della guerra". Non usa mezzi termini, in un'intervista ai media vaticani, l'ambasciatore dell'Unione europea a Yangon, Ranieri Sabatucci, nel descrivere la situazione in cui versa il Myanmar a quattro anni dal golpe del primo febbraio 2021.
Un conflitto allargato
"Il conflitto tra giunta al potere e gruppi ribelli si è allargato - spiega il diplomatico -: i militari hanno perso tantissimo territorio, sia nel nord-est, ma direi ancora di più nel Rakhine (a ovest), dove quasi tutto il territorio è nelle mani dell’Arakan army, o ancora nelle zone tradizionalmente di origine dei militari, ovvero la fascia centrale del Paese dove ci sono conflitti piuttosto intensi anche tra la maggioranza stessa quindi tra bamar contro bamar (birmani, gruppo etnico largamente predominante)". La conflittualità è, dunque, molto estesa, praticamente in quasi tutto il Myanmar tranne nelle tre città principali del centro. "E in tutto il Paese l’economia soffre parecchio, ci sono crisi alimentari in parecchie zone e ormai più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tanta gente va via dal Myanmar per cercare lavoro ed opportunità nei Paesi limitrofi, dove spesso le opportunità e il lavoro esistono ma in condizioni di sfruttamento".
Il disastro della leva obbligatoria
L'ambasciatore sottolinea poi la mancanza di visione da parte dei militari al potere, in particolare denunciando la "politica sconsiderata" che ha introdotto il servizio di leva obbligatoria. "È un disastro - commenta - perché da una parte i militari al potere non hanno abbastanza soldati per contrastare tutti i gruppi ribelli e dall’altra, con la leva obbligatoria, non riescono a cambiare le cose perché si tratta di tutte persone che non vogliono combattere per cui il risultato anche dal punto di vista militare è pessimo. In più parecchia gente è spaventata dalla leva obbligatoria e si nasconde o scappa nei Paesi limitrofi: il risultato finale è che hanno portato il conflitto all'interno di ogni famiglia birmana che adesso soffre di questa situazione. Solo alcuni giorni fa, inoltre, hanno detto che adesso inizieranno a reclutare pure le donne giovani, in quello che appare un segnale di disperazione e scarsa lungimiranza anche dal punto di vista dell’economia.
Il ruolo della Cina
La scorsa settimana, negli Stati nord-est stremati dal conflitto, è stata annunciata una tregua, frutto della mediazione cinese. "Diciamo che i cinesi - spiega Sabatucci - hanno deciso che è loro interesse stabilizzare il Myanmar perché hanno degli interessi importanti che vogliono tutelare. Stanno cercando di accompagnare le autorità militari in un processo di dialogo con i gruppi ribelli più vicini a loro obbligandoli a entrare in negoziati di pace. E gradualmente vorrebbero allargare questi contatti ad altri gruppi. Si tratta di una strategia che per il momento potrebbe funzionare, ma dall’altra parte i problemi di fondo non vengono risolti: i militari hanno ancora l’intenzione di recuperare i territori persi mentre il gruppo non è disposto ridarglieli. Per cui si è creata una situazione di ambiguità in alcuni centri urbani del nord-est, in particolare nello Stato di Shan dove i militari hanno chiesto come contropartita di riprendere il capoluogo Lashio ma il gruppo etnico non intende accettare. Per questo hanno spostato la discussione su questo punto fra sei mesi e ci troviamo di fronte a una tregua molto fragile.
Le elezioni entro fine anno
L’altro asse su cui si muove la mediazione cinese, secondo l'ambasciatore dell'Ue, è quello di favorire le elezioni entro fine 2025, "anche se queste non saranno mai particolarmente credibili o rappresentative". "Le autorità militari - precisa - non controllano ampie parti del Paese, per cui in oltre il 60 per cento dei territori non si potranno svolgere le operazioni di voto; inoltre il partito che ha sempre vinto le elezioni non può parteciparvi. Pechino punta comunque su questo processo di stabilizzazione, mentre noi come Unione europea e partner occidentali non troviamo che questa sia una soluzione che porterà ad una vera riconciliazione. La giunta potrebbe annunciare il primo febbraio la data di queste elezioni, ed ha una certa fretta di andare al voto perché l’andamento del conflitto è per loro molto negativo".
La liberazione dei prigionieri politici
Regolarmente, in prossimità di festività importanti, il regime birmano è solito fare delle amnistie. "Ma fino ad ora - osserva l'ambasciatore - in tutte queste amnistie non sono stati liberati prigionieri politici o, se lo erano, erano personaggi non molto influenti o malati gravi per non farli morire in prigione. La giunta militare si trova in una situazione molto complicata e non hanno una soluzione: ma avere nuove elezioni, con il leader che ha sempre stravinto le elezioni che non può partecipare, mina la credibilità. Noi siamo sempre speranzosi che arrivi il lume della ragione che permetta ai militari di capire che bisogna intraprendere un percorso completamente diverso nel quale includere come primo passo la liberazione dei prigionieri politici.
L'azione dell'Ue
L'ambasciatore risponde poi ad una domanda sull'azione diplomatica dell'Ue e sulle sanzioni contro la giunta birmana. "Bisogna ammettere che l'Ue non è che abbia delle leve enormi in questo Paese, ma cerchiamo di usare quelle che abbiamo", afferma. "Le sanzioni non ambiscono a costringere i militari a rivedere le loro posizioni, ma sono un segnale del nostro scontento. L’Ue, malgrado tutto, tiene attivo un protocollo commerciale che permette ad esempio le esportazioni dell’industria tessile, in modo che la popolazione birmana possa continuare a lavorare. Cancellare questo protocollo vorrebbe dire mettere in ginocchio gli strati più vulnerabili della popolazione. Parallelamente cerchiamo di promuovere i diritti dei lavoratori. L’Ue stanzia inoltre aiuti umanitari indirizzati a oltre il 50 per cento della popolazione in condizioni di povertà estrema e ai 3 milioni e mezzo di sfollati interni che non hanno più nulla.
In difesa delle minoranze
Papa Francesco non manca di ricordare il Myanmar nei suoi appelli e mostra un’attenzione particolare alle minoranze, da quella cristiana ai Rohyngia. Secondo Sabatucci, l'attenzione del Santo Padre per il Myanmar è un segno molto importante. "Bisogna dire - conclude l'ambasciatore - che l’attuale crisi è più grande e più intensa della precedente. Non esiste un gruppo etnico favorito e la ribellione contro i militari è ormai di tutto il Myanmar. Le minoranze, paradossalmente, hanno una maggiore preparazione ad affrontare le crisi perché lo fanno da 70 anni. Un ulteriore paradosso oggi è che i militari stanno addirittura armando i Rohyngia al fine di creare ancora più caos facendoli combattere con la popolazione buddhista dello stato di Rakhine. Il dramma di questa minoranza, fuggita in massa già nel 2017, con un milione di profughi in Bangladesh, prosegue ancora oggi in modo diverso: è una situazione pericolosissima, in cui vengono armate persone disperate per giustificare il caos".
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