Padre Jubran, l'operazione israeliana è pesante ma non lasciamo Jenin
Roberto Cetera - Jenin
Padre Amer Jubran è il parroco della chiesa cattolica latina di Jenin. Originario di Nazareth, prima di essere trasferito a Jenin è stato formatore del seminario del Patriarcato latino di Gerusalemme a Beit Jala. Da lui riceviamo gli ultimi aggiornamenti sulla situazione nella tormentata città palestinese. «Siamo ormai al diciassettesimo giorno di occupazione della città da parte dell’esercito israeliano. E continuiamo a vivere asserragliati nelle nostra case, con il timore di uscire per strada anche solo per comprare del cibo».
L'operazione militare
I soldati israeliani sono entrati a Jenin il 21 gennaio scorso, praticamente in coincidenza con l’inizio della tregua a Gaza. Contestualità che ha fatto ritenere alla maggioranza degli osservatori che il governo israeliano abbia deciso l’inizio dell’operazione per compensare la parte più estremista della maggioranza che era ostile al cessate-il-fuoco e minacciava di far cadere il governo. Prima dell’arrivo degli israeliani si erano registrati a Jenin scontri continui per settimane tra le fazioni armate presenti nel campo profughi e le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese.
«La nostra è l’unica chiesa cristiana ancora aperta a Jenin, nei villaggi vicini ci sono anche comunità melchite e ortodosse — spiega padre Amer —, la nostra è una comunità piccola di sole 80 famiglie ma sono tutti molto legati alla propria identità e molto devoti. Non è certo la prima volta che gli israeliani occupano Jenin. Lo scorso agosto l’Idf era entrata per ben 10 giorni, ma ora a preoccupare è insieme alla durezza degli scontri anche la durata. C’è il timore che l’occupazione finisca col divenire permanente».
La sofferenza della popolazione
Padre Amer da chi sono guidate queste milizie: Hamas, Jihad islamica o la cosiddetta Brigata Jenin?
Non ne abbiamo idea per il semplice motivo che noi cristiani rimaniamo totalmente estranei a queste dinamiche, vogliamo solo vivere pacificamente, come d’altronde lo vuole la maggioranza degli abitanti di Jenin.
Qual è lo stato di sofferenza della gente al momento?
È molto pesante. Circa 20.000 persone hanno lasciato le loro case per cercare sicurezza nei villaggi vicini. Per molti è impossibile lavorare: i checkpoint a nord e ovest verso la Galilea, dove vanno a lavorare, sono chiusi. Rimane aperto il checkpoint a sud verso Gerico, e questo significa che per andare a nord, se pure si ha il permesso, si impiegano ore. In molte case manca l’acqua perché sono stati distrutti i cassoni di riserva, così come molte infrastrutture e chiuse delle strade. Ad oggi circa 180 case sono state distrutte o demolite. Tra queste anche due case di famiglie cristiane. Uscire di casa è molto pericoloso, io stesso evito di uscire se non è necessario, ma questo non mi impedisce di rimanere vicino al mio gregge, rimanendo in costante contatto via zoom o whatsapp. La nostra parrocchia dista circa un chilometro dal campo profughi, che è l’epicentro dello scontro. Comunque io continuo a celebrare la messa la sera dei giorni festivi, e anche nella settimana, e, quando mi è possibile, anche nei villaggi vicini, ospite delle altre comunità cristiane.
Cosa prevede nei prossimi giorni?
Questa volta l’incognita è tanta. E gli sviluppi politici di queste ultime ore non sembrano incoraggianti. Di una cosa solo sono certo: io da qui non me ne vado, intendo condividere fino in fondo questa tragica esperienza che sta soffrendo il popolo. E a voi che ci guardate da lontano, vi chiedo di pregare per noi. Pregate per noi, non smettete mai di pregare per noi. Perché ne abbiamo bisogno, e perché l’unica cosa utile che ora potete fare.
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