L’arcivescovo Anastas, credere in Dio nell’Albania comunista
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
«Se hai fede, resta e lotta. Se non ce l’hai, torna a casa»: sono queste le parole che Anastasios Yannoulatos si ripete quando, il 16 luglio 1991, a 61 anni, atterra all’aeroporto di Tirana assumendo così l’incarico di esarca patriarcale in Albania, meditato dal patriarca ecumenico Demetrio I e sancito dal suo successore Bartolomeo I con la nomina poi ad arcivescovo. Se da un lato il regime comunista è appena crollato e la disperata corsa al benessere economico è appena cominciata, dall’altro Anastasios (in albanese Anastas) eredita una situazione disastrosa: almeno 1600 chiese cristiane sono state distrutte e solo 22 sacerdoti, su 440 che avevano servito l’Albania dalla fine della seconda guerra mondiale, sono rimasti in vita. Tutt’altro che isolata, una sorte simile era toccata pure alla religione musulmana, cui gli albanesi aderiscono in maggioranza almeno dal 1385, ossia da quando l’impero ottomano inizia a dominare i territori dell’Epiro o dell’Illiria che affacciano sull’Adriatico — nonostante città come Durazzo furono raggiunte da san Paolo in età tardo romana.
Perché per buona parte del Novecento ogni forma di religione in Albania è bandita. Fedele al principio nazionalista diffuso dal patriota Vaso Pasha secondo cui «la vera religione degli albanesi è l’albanismo», diffidente nei confronti delle religioni poiché capaci di scatenare sentimenti antinazionalisti, inebriato di ideologia nazionalcomunista, il generale ed ex primo ministro albanese Enver Hoxha nel 1967 fa dell’Albania «il primo Stato ateo al mondo». Nell’articolo 37 della Costituzione viene sancito che «lo Stato non riconosce alcuna religione e supporta la propaganda atea per inculcare alle persone la visione scientifico-materialista del mondo», mentre nell’articolo 55 del Codice penale del 1977 viene stabilita la reclusione da tre a dieci anni per propaganda religiosa.
Simili teorie trovano terreno fertile a causa di motivi innanzitutto antropologici e sociali. L’Albania è da sempre caratterizzata da un dibattito sulla «questione nazionale» (çështja kombëtare), legato tanto ai confini geografici del Paese quanto alla definizione della propria identità, resa ancor più complessa dall’assenza di passato imperiale o di un’entità storica di epoca medievale. Sul piano religioso, l’islam è stata sì la fede più praticata — soprattutto dal 1600 in poi, grazie anche alla distribuzione di ingenti somme di denaro da parte degli ottomani —, ma ha avuto scarse tendenze integriste, restituendo l’immagine di un Paese musulmano senza mai elargirsi a religione di Stato.
Peraltro, la religione in Albania è divisa a livello geografico. Ancora oggi, secondo il censimento del 2023 condotto dall’istituto nazionale di statistica, il 45 per cento della popolazione è islamica, l’8 per cento cattolica e il 7 per cento ortodossa, ma se l’islam è radicato in tutto il territorio gli ortodossi cristiani sono a sud e i cattolici a nord. Per anni, poi, il cristianesimo non ha avuto vita facile. L’ortodossia era sospettata di filoellenismo — tant’è che tra il 1922 e il 1937 Tirana favorisce la nascita di una Chiesa albanese autocefala in base al principio del filetismo — e il cattolicesimo negli anni Cinquanta veniva associato agli occupanti fascisti d’origine italiana.
A fronte di un Paese socialmente frammentato, specie dopo la seconda guerra mondiale, il mezzo principale con cui Hoxha mette al bando la religione risiede nelle persecuzioni. Tra il 1944 e il 1985 il leader comunista fa sopprimere tutti i monasteri ortodossi, le chiese cattoliche e le moschee dell’Albania, i rappresentanti religiosi vengono uccisi o fatti disperdere: «Nemmeno nella Russia sovietica o nella Cina comunista lo Stato attaccò ogni manifestazione della vita religiosa in modo così capillare e spietato», avrebbe commentato anni dopo Anastasios.
In effetti, l’aggressività è un tratto distintivo del regime di Hoxha, come dimostrato in politica estera. Timoroso di un assorbimento di una parte del suo Paese ad opera della vicina Jugoslavia, Hoxha prima condanna il riavvicinamento tra Mosca e Belgrado ad opera di Nikita Krusciov e del generale Tito, poi nel 1960 espelle otto sottomarini sovietici dalla base di Valona. Col timore di essere isolato, Hoxha si appoggia alla Cina comunista di Mao Tse Tung, in quegli anni critica verso la figura di Krusciov: così, mentre al XXII congresso del partito comunista Mosca condanna gli albanesi per «opinioni erronee», Pechino e Tirana firmano un accordo volto a facilitare gli aiuti economici. Anche se dopo la morte di Mao Hoxha finisce per criticare pure Pechino, l’Albania comunista è al centro dei tanti strappi tra Unione Sovietica e Cina.
E le conseguenze di simili aspirazioni indipendentiste si sarebbero fatte sentire ancor più col crollo del regime comunista: negli anni Novanta l’arretratezza economica accumulata per anni genera l’anarchia politica, alimenta la criminalità e facilita l’immigrazione clandestina, specie verso le coste italiane. Nonostante ciò, Anastasios è restato e ha lottato dando, attraverso un’ulteriore testimonianza di fede, ancor più valore alla sua opera di ricostruzione tanto fisica quanto spirituale dell’Albania cristiana.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui