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Membri della comunità monastica di al-Khalil Membri della comunità monastica di al-Khalil
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Una suora dalla Siria in guerra: nell'accoglienza reciproca sperimentiamo la luce

Un cammino di luce nell’oscurità della guerra, è questo ciò che testimonia suor Deema Fayyad che racconta la sua vita e quella della sua comunità durante questi ultimi anni segnati dal conflitto. Preghiera, lavoro quotidiano e accoglienza ritmano le loro giornate intessendo un rapporto di dialogo e di fraternità anche con i musulmani della zona in cui sorge il loro monastero. La speranza si nutre di gesti quotidiani di pace, afferma la religiosa

di Deema Fayyad e Giuditta Bonsangue

"Mi chiamo Deema, sono siriana della città di Homs, una città al centro della Siria tragicamente colpita dalla guerra. Appartengo alla comunità monastica di al-Khalil (l’amico di Dio) fondata nel monastero siro cattolico di San Mosè l’Abissino nel 1991 da padre Paolo Dall’Oglio insieme a Jacques Mourad. Non abbiamo notizie di padre Paolo da quando è stato rapito dall’Isis nel luglio 2013. Anche padre Jacques è stato anche rapito l’anno scorso dal sedicente Stato islamico e liberato alcuni mesi dopo.

Coltivare il rapporto con Dio sopra ad ogni altra cosa

Per descrivere la nostra vita monastica direi che è basata su tre priorità e un orizzonte. La prima priorità è quella della preghiera, come è scritto nel testo delle nostre regole: “Siamo venuti al Monastero prima di tutto per pregare e per pregare ininterrottamente, per questo la comunicazione continua, cosciente e profonda con Dio è il nostro obiettivo, il nostro diritto e il nostro dovere”. La nostra è anche una vita consacrata al lavoro manuale, visto e vissuto come obbedienza al comandamento dato all’uomo di prendersi cura della terra e così co-partecipare alla creazione. La terza priorità, invece, è l’ospitalità ispirata da Abramo che accoglie Dio nella sua tenda. Vediamo in ogni persona Dio che ci viene a visitare. Tale accoglienza trova il suo significato più profondo quando riusciamo ad accogliere l’altro nella nostra preghiera. L’orizzonte verso il quale si apre la nostra vita è la vocazione al dialogo islamico-cristiano. Desideriamo consacrarci particolarmente all’amore di Gesù Cristo per i musulmani come persone e per il mondo musulmano come comunità (Umma). Vogliamo in realtà, offrire la nostra vita per rendere il lievito evangelico sempre presente nella società di maggioranza musulmana e ciò, come è riportato dalla regola della comunità, “secondo lo spirito di discernimento, di speranza e di carità capace di trasformare le sofferenze di ieri e di oggi per la mutua comprensione ed il mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproci”.

Monastero siro cattolico di San Mosè l'Abissino
Monastero siro cattolico di San Mosè l'Abissino

La nostra vocazione al dialogo per la pace

Nel tempo della guerra, la nostra vocazione al dialogo potrebbe sembrare una follia ma sperimentiamo, giorno dopo giorno, che essa potrebbe essere la via, mi vien da dire l’unica via d’uscita verso un mondo di pace. Il nostro monastero è stato una meta per tanti pellegrini che desiderano, oltre a soddisfare la loro curiosità culturale, appagare la loro sete spirituale. La guerra ha avuto il suo effetto su questo movimento e abbiamo sentito la chiamata di scendere in città per soccorrere i bisognosi. Nel 2013, in uno spazio sotterraneo, la comunità ha celebrato la Messa di Natale dopo la distruzione del quartiere cristiano nella città di Nebek, la città più vicina al monastero. Dopodiché, è iniziato un immenso lavoro di restauro delle case grazie all’entusiasmo di tanti collaboratori e alla generosità di tanti amici sparsi in diverse parti del mondo. Nello stesso anno, tante famiglie musulmane hanno trovato rifugio nel monastero di Mar Elian, un monastero nella città di Qaryatyan affidato alla comunità dal 2000. Anche qui, grazie alla solidarietà di tanti siamo riusciti ad aiutare queste famiglie a restaurare le loro case perchè potessero ritornarci. Dopo questo tempo intenso di combattimento è seguito un tempo di relativa calma, un periodo nel quale abbiamo cominciato a pensare al futuro. Abbiamo, infatti, sentito che è appropriato, ma anche necessario “pronunciare una parola di speranza in questa notte oscura, di accendere una candela invece di maledire l’oscurità”, citando la lettera scritta dalla comunità monastica per la veglia di Natale, di cui vi ho parlato sopra.

La speranza nasce dai semplici gesti quotidiani

Pensare al futuro vuol dire pensare ai bambini e ai giovani. Da quel momento e fino ad oggi, abbiamo sostenuto un asilo nella città di Nebek, abbiamo fondato una scuola di musica per i bambini e i ragazzi delle due parrocchie della città e aiutato diversi giovani nel loro studio universitario o nel lavoro. Le poche notizie che si sentivano ultimamente sulla situazione siriana nei notiziari italiani hanno ceduto il loro posto ad altre, purtroppo sempre di guerra. Un immenso dolore penetra i cuori siriani e la crisi continua anche oggi. Se scrivo queste parole è solo perché vorrei testimoniare come, malgrado tutto, la speranza nasce dai gesti quotidiani molto semplici, gesti che i media non sono capaci di trasmettere, o anche decidono coscientemente di non trasmettere. Lungo gli anni della guerra abbiamo potuto toccare la misericordia del Signore espressa nella reciproca compassione e solidarietà tra fratelli. Partecipare ad alcune Messe nella città, vedere i giovani, cristiani e musulmani servire chi ha bisogno con entusiasmo e gioia, assistere alle preghiere del rosario nelle case mentre il combattimento era alle porte, sentire un coro di bambini, sapere che tanti amici musulmani si preoccupano per noi e pregano per la pace denunciando ogni tipo di violenza, sentire le preghiere di tanti amici sparsi in tutto il mondo… tutto ciò ha fatto spuntare una timida luce di speranza. Alle volte, infatti, bastava vedere come la gente semplice continua a vivere, a credere in Dio e a sperare in un futuro migliore per riprendere il fiato e continuare ad intraprendere la via stretta della speranza. Per quanto mi riguarda, e penso di non rappresentare in questo solo me stessa ma anche la mia comunità e tanti siriani, in questi anni, ho lottato per custodire anche la speranza nell’uomo e nella sua capacità di fare il bene e di scegliere la via della non violenza. Ho fiducia nella sua possibilità di aprirsi alla grazia del Signore. Papa Francesco ci insegna in , che 'giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero'. Provare ad essere più umani nel tempo della guerra ci permette di entrare nel cerchio dell’Amore che non conosce limiti ed è capace di cambiare il mondo e di far fiorire i semi del Regno su questa terra, adesso e non in un futuro lontano. Posso gridare con certezza che alcuni siriani sono entrati in questo cerchio!".

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05 luglio 2022, 11:05