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L'arcivescovo di Torino monsignor Roberto Repole L'arcivescovo di Torino monsignor Roberto Repole 

Repole: il pallio è assunzione di responsabilità in comunione con la Chiesa

Tra gli arcivescovi metropoliti che hanno ricevuto il sacro pallio, c’è monsignor Roberto Repole, neo arcivescovo di Torino: il pastore è chiamato a condividere e ad essere vicino a chi è più debole

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Sono venuti da tutto il mondo, nella Basilica di San Pietro, gli arcivescovi metropoliti a ricevere da Papa Francesco il sacro pallio, benedetto dal Pontefice, sulla tomba di Pietro, e che, proprio per questo rappresenta un vincolo forte con gli apostoli, con il Papa e con tutta la Chiesa.

Tra di loro c’è monsignor Roberto Repole, che il 19 febbraio scorso è stato nominato dal Santo Padre 95.mo arcivescovo metropolita di Torino e vescovo di Susa. Nell’intervista a Radio Vaticana – Pope, il presule racconta le sue emozioni e gli aspetti più significativi nel guidare l’arcidiocesi del capoluogo piemontese.

La consegna del pallio, un rito dal profondo significato. Come si vive questo momento?

Con profonda emozione e soprattutto con un senso di gratitudine al Signore, nella preghiera, sapendo che è un segno che esprime le responsabilità pastorale.

E’ importante che avvenga nel giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo?

Si, certamente, crea una comunione particolare con gli apostoli, con la chiesa apostolica, e poi con il Papa e, quindi, diventa in qualche modo un impegno ancora maggiore a lavorare per la comunione della Chiesa, per l'unità della Chiesa.

Essere testimoni del Vangelo e della fede oggi, quindi condurre il proprio gregge in questo impegno, quanto è importante?

E’ importante, perché, appunto, ciò di cui c'è bisogno non è soltanto una parola autorevole, ma c'è bisogno di una vita autorevole. La Chiesa tutta ha bisogno di testimonianze che rimandino al Signore e tutti possono incontrarlo e possano credere.

Ogni diocesi ha le sue criticità e le sue positività. Quali sono quelle di Torino? Dopo la pandemia, in questo momento il lavoro è a rischio: la siccità sta creando, per chi lavora nell'agricoltura e nell'allevamento, delle difficoltà ulteriori. Come il vescovo può essere vicino a queste problematiche?

Penso, anzitutto, non estraniandosi dal resto del popolo di Dio e rimanendo appunto un credente che vive la realtà di tutti. Ed essere vicino soprattutto a chi è più in difficoltà, a chi è più debole, talvolta anche dando voce a chi non ha voce.

L'arcidiocesi di Torino custodisce la Sacra Sindone, un simbolo che raccoglie la devozione di tanti fedeli per quello che rappresenta…

Sì, è un simbolo molto importante, perché ci rimanda alla testimonianza del Vangelo sulla Morte e sulla Resurrezione di Gesù. Penso che sia una grande grazia che la Chiesa di Torino ha ricevuto, custodisce e che può offrire al mondo. Soprattutto una grande opportunità di aiutare le persone a riflettere su ciò che oggi è rimosso, ovvero il dolore, la sofferenza e la morte. Ed è importante farlo nella prospettiva della Resurrezione di Cristo e della vita eterna.

Come dal particolare della propria diocesi si riesce a guardare al generale, alle emergenze internazionali che continuano a preoccuparci: le guerre, innanzitutto quella in Ucraina, ma non solo, e la pandemia, che ancora oggi non è stata debellata?

Oggi siamo chiamati più che mai a cogliere il particolare, che è sempre immerso in un orizzonte universale, in un mondo globalizzato e a sentire quelle che sono le tensioni, le fatiche e i drammi, che si consumano anche a distanza, e che toccano, comunque, la vita di tutti. La guerra ci interpella continuamente. Ci sono degli odii e delle tensioni che a volte si consumano nelle nostre città e, nello stesso tempo, la guerra ci fa vedere che siamo tutti interconnessi. Quindi ci sono delle problematiche che toccano tutti che si riversano su di noi, ma anche delle virtualità che possiamo mettere in comune.

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29 giugno 2022, 10:33