Suor Gloria Narváez: prigioniera nel deserto ho sentito Dio vicino
Manuel Cubías – Città del Vaticano
La recita quotidiana dei Salmi, nei pochi istanti di libertà concessi da carcerieri di muovere qualche passo nel deserto. La certezza che tanti stavano pregando per la sua sorte assieme al rispetto dei carcerieri e anche alla discriminazione perché suora cattolica. C’è stato tutto questo e altro nei quattro anni e otto mesi di prigionia di suor Gloria Cecilia Narváez, delle Francescane di Maria Immacolata, rapita dai jihadisti in Mali il 7 febbraio 2017 e restituita alla libertà il 9 ottobre scorso. Ai media vaticani, la religiosa colombiana racconta qualcosa della sua esperienza di prigionia e di cosa abbia sostenuto in lei la speranza.
Come ha avvertito la vicinanza delle persone che pregavano per lei?
In ogni momento mi ha sostenuto la fede. Non avevo paura per quello che forse mi sarebbe accaduto, sapevo che Dio mi sosteneva, che la Chiesa intera, le mie consorelle e il mondo intero pregavano per me.
Qual è stato il suo rapporto con le persone che la tenevano prigioniera?
Con i gruppi di sequestratori il rapporto è stato di grande rispetto, di preghiera per ognuno di loro, di obbedienza quando vedevo che potevo obbedire nelle cose che erano giuste. Ho avuto un buon rapporto umano con loro.
E loro come la vedevano: una religiosa, straniera, di una cultura diversa?
Mi discriminavano perché ero una religiosa. Ero cattolica, non avevo la loro religione. Dicevano sempre che l’islam, era la religione. Io li lasciavo esprimere con rispetto, ma ho percepito che mi rifiutavano per il fatto di essere cattolica e una religiosa.
Ha mai temuto per la sua vita?
No, mai. Quando mi hanno portato via ero disposta a correre qualsiasi rischio. Avevo fiducia in Dio. Mi sono detta: “Quel che sarà, sarà”. Perché ero disposta a dare la mia vita.
C’è qualche simbolo, un momento in particolare in cui ha sentito la forza interiore della presenza di Dio?
Sì, soprattutto quando recitavo i Salmi, quando potevo camminare un po’ per il deserto e guardare la grandezza del creato, il sole che spuntava la mattina, i cammelli che procedevano lungo le montagne di sabbia. In ogni momento sentivo questa grande sicurezza in Dio.
Quando ha capito che la sua prigionia era finita?
Quando sono arrivata a Bamako e sono andata nella casa del presidente e ho incontrato il cardinale Zerbo, con il presidente del Mali, con il ministro della Cultura e della religione. In quel momento, ho capito che ero libera.
Quali sono stati i suoi pensieri in quel momento?
Prima di tutto, di ringraziare Dio di tutto cuore. Ripetevo sempre: non c’è un Dio così grande come il nostro Dio, ciò che vuole lo fa nel cielo e sulla terra. Ripetevo sempre: il Signore è la mia luce e la mia salvezza. Ero grata al Signore che aveva reso possibile la mia libertà. E il mio grazie sincero va alla Chiesa, a Papa Francesco, alle autorità del Mali, al governo italiano, alla sua intelligence e a tutte le persone che si sono adoperate affinché ottenessi la libertà. La preghiera ottiene tutto ciò che uno si propone.
Qual era il suo lavoro come missionaria e cosa ritiene occorra continuare a fare in queste terre dove voi operate?
La nostra Congregazione francescana stava rispondendo a un bisogno molto grande che c’è a Karangasso, in Mali. Eravamo impegnate in un centro di assistenza sanitaria per la gente dei vari villaggi, un orfanotrofio – che spesso ospitava decine di bimbi orfani della mamma morta di parto – l’alfabetizzazione, il ricamo e il cucito. Ci occupavamo anche di microcredito per il piccolo commercio nel mercato specie per le donne, perché potessero contribuire al mantenimento della famiglia. Ora non siamo più presenti da qualche mese, ma abbiamo ottenuto che queste attività non chiudessero e tuttora continuano, ad eccezione del microcredito, tutte gestite da donne del posto con la supervisione della diocesi.
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