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Una Pasqua di sofferenza in Mozambico soprattutto per gli sfollati di Palma Una Pasqua di sofferenza in Mozambico soprattutto per gli sfollati di Palma 

L’attesa della Pasqua in Mozambico

Sarà una Pasqua in forma privata, quella che si apprestano a vivere i fedeli in Mozambico, a causa delle restrizioni per la pandemia. Nel Paese africano, intanto, la violenza jihadista che colpisce il Nord ha provocato centinaia di migliaia di sfollati. Dalla diocesi di Tete, la testimonianza del vescovo Antunes: “Le nostre chiese sono chiuse ma la Chiesa è aperta nella famiglia e nei cuori dei credenti”

Elvira Ragosta – Città del Vaticano

Gli attacchi jihadisti nella provincia di Cabo Delgado, il dramma di centinaia di migliaia di sfollati costretti a fuggire dai loro villaggi e a trovare riparo e conforto nelle altre zone; la popolazione già stremata dalle calamità naturali, dopo il passaggio del ciclone Eloise e gli ingenti danni provocati dalle piogge copiose. Questa la difficile situazione in cui vive il Paese africano, che come gli altri Stati, è anche alle prese con le misure restrittive decise dal governo per evitare il diffondersi dei contagi. Raggiunto telefonicamente nel Paese, monsignor Diamantino Antunes, vescovo di Tete, diocesi del Nord-ovest non interessata dagli attacchi e dove i cattolici rappresentano il 25 % della popolazione, racconta a Pope come i fedeli stanno vivendo l’attesa della Pasqua.

Ascolta l’intervista a monsignor Diamantino Antunes:

R. - Con spirito di gioia che ci viene dalla fede, ma anche con molta preoccupazione e con un po’ di tristezza. Tristezza dovuta al fatto che le nostre chiese sono chiuse, il Paese è in stato di emergenza a causa della pandemia di Covid-19 e il governo ha decretato la sospensione dei culti religiosi. È più di un mese che le nostre chiese sono chiuse e purtroppo anche quest'anno, come l'anno scorso, la nostra Pasqua, la Settimana Santa e il Triduo Pasquale saranno senza celebrazioni pubbliche e questo ci crea tristezza. Ma la tristezza viene anche della sofferenza e dal dramma che il Paese sta vivendo in alcune sue regioni, in particolare nel Nord, dove la guerra sta producendo molta sofferenza. Sono migliaia gli sfollati. Purtroppo ci sono anche vittime tra i civili, è una situazione molto difficile che diventa ancora più drammatica a causa delle calamità naturali, i cicloni e le piogge abbondanti.

La diocesi di Tete non è interessata dalle violenze che stanno in questi giorni stanno colpendo in questi giorni la zona di Cabo Delgado, ma quali sono le testimonianze che lei riceve da quell’area?

R. - Dai contatti con i missionari che lavorano sul posto sappiamo che la situazione è molto difficile. Stiamo parlando di una violenza che è cominciata tre anni fa ed è gradualmente cresciuta e ciò ha provocato paura nella popolazione. La popolazione è stata vittima degli attacchi ma anche vittima della paura, per cui quando arrivano i segnali che queste milizie armate si avvicinano ai villaggi le persone scappano. Progressivamente le milizie hanno preso possesso di un territorio molto vasto provocando un esodo massiccio di persone, si parla di circa 700mila profughi che hanno lasciato le proprie case e si sono spostati in posti più sicuri, a Pemba, che è la capitale della provincia, e anche nelle province vicine. Anche i missionari sono dovuti scappare con la gente e sono anche loro profughi tra i campi di sfollati e prestano assistenza religiosa e anche materiale.

La Chiesa come sta sostenendo la popolazione?

R. - Il lavoro della Chiesa, attraverso la Caritas, i gruppi parrocchiali, i movimenti anche con la società internazionale, è un lavoro di accoglienza per queste persone che arrivano senza niente, soprattutto si cerca di dare loro cibo, materiale igienico e assistenza medica. È un lavoro di presenza, di consolazione e aiuto materiale anche in collaborazione col governo e con altre organizzazioni. Anche le diocesi che non hanno ospitato sfollati cercano comunque di aiutare per fornire cibo a questi fratelli che veramente soffrono.

 Nella sua diocesi e come avverranno i riti Pasquali?

R. - In forma privata, a causa del divieto di svolgere riti religiosi pubblici. Per questo stiamo insistendo molto sull’invito a vivere la fede in famiglia. Le nostre chiese sono chiuse ma la Chiesa è aperta: aperta nella famiglia e nei cuori dei credenti. Questa pandemia è anche un'opportunità per valutare e potenziare la dimensione personale della fede, vedere la famiglia come chiesa domestica, dove si prega. Per questa Pasqua abbiamo insistito molto affinché ogni famiglia faccia le celebrazioni pasquali in piccoli gruppi, seguendo la liturgia. Così abbiamo fatto anche per la Domenica delle Palme: abbiamo benedetto le Palme nelle chiese e poi i responsabili delle comunità sono venuti a prenderle per consegnarle in ogni famiglia e ora ogni famiglia ha ricevuto dei sussidi per fare la celebrazione della Passione. Poi, stiamo trasmettendo ogni giorno la messa via radio, attraverso una radio diocesana, e questo è un modo molto importante di unirci in preghiera per vivere la domenica e in particolare questa Settimana Santa.

Qual è la sua riflessione per questa Pasqua?

R. - È una Pasqua di sofferenza. Penso che ci aiuta a vivere meglio i sentimenti di Gesù che si è offerto per noi, ha sofferto per noi. Ed è anche un momento che deve far scoprire la speranza e vivere la speranza: la Pasqua è Resurrezione, è vita. Cristo, che attraverso la sua morte ha distrutto il male, il peccato, per donarci la vita, per donarci speranza. Il messaggio che ho trasmesso ai cristiani della mia diocesi è che nonostante le difficoltà, la sofferenza, non possiamo mai perdere la speranza. Il cristiano è un uomo della speranza, speranza che viene dalla fede in Cristo che è morto e risorto per tutti noi.

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01 aprile 2021, 09:00