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Papa Francesco e l'Arcivescovo di Canterbury a Casa Santa Marta con i leader del Sud Sudan (aprile 2019) Papa Francesco e l'Arcivescovo di Canterbury a Casa Santa Marta con i leader del Sud Sudan (aprile 2019) 

L'Arcivescovo di Canterbury: cristiani siano uniti in tempo pandemia

Intervista del Primate anglicano Justin Welby con i media vaticani: le sfide poste ai cristiani dall'emergenza coronavirus, l’importanza dell'enciclica “Fratelli tutti” per il movimento ecumenico, le speranze di pace per il Sud Sudan

Alessandro Gisotti

Un anno fa, il 13 novembre 2019, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby veniva ricevuto da Papa Francesco in Vaticano. Dodici mesi dopo, la situazione del mondo è radicalmente cambiata a causa della pandemia. Tuttavia, la drammatica irruzione del virus Covid-19 non ha diminuito ma anzi rafforzato quei temi - dalla solidarietà all’ecologia, dalla libertà religiosa alla pace - che hanno registrato negli anni una particolare sintonia tra il Vescovo di Roma e il Primate della Comunione Anglicana. A un anno da quella visita e a poco più di un mese dalla pubblicazione dell’Enciclica “Fratelli tutti”, l’arcivescovo Welby ha concesso un’intervista a tutto campo all’Osservatore Romano e Pope sui temi di maggiore attualità muovendo la riflessione dal contributo che i cristiani possono dare in un tempo così profondamente segnato dalla sofferenza.

Vostra Grazia, l’ultima volta che ha incontrato il Santo Padre è stato giusto un anno fa, il 13 novembre, in Vaticano. Da allora il mondo è cambiato radicalmente a causa dello scoppio della pandemia. Che cosa possono fare i leader cristiani come lei e il Papa per promuovere la speranza in un tempo di paura e di sofferenza globale?

Fondamentalmente, la nostra speranza è in Gesù Cristo, che è “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebrei 13, 8). Mentre il mondo può cambiare, l’amore di Dio attraverso Gesù Cristo è immutabile. “Le misericordie del Signore non sono finite” (Lamentazioni 3, 22). Il compito di quanti guidano la Chiesa è di testimoniare la speranza in tempi difficili. Gesù non è venuto a portare speranza a un mondo in cui le cose andavano bene, bensì a un mondo fragile e spezzato, un mondo pieno di persone fragili, ferite, peccatrici. E quello che Gesù ci dice di fare è di “non temere”. Egli è la nostra speranza.
I cristiani sono chiamati a essere persone di speranza, dimostrata nel modo in cui vivono insieme come comunità. Il messaggio di speranza in Cristo guarda oltre il qui e ora, guarda a ciò che verrà, all’eternità e alla promessa di vita eterna. La vita umana è fragile, e la malattia e la morte diffuse ce lo fanno comprendere in modo brusco e drammatico.  Tuttavia, la vita eterna è proprio questo, eterna. Dio ci chiama anche a far sì che la vita terrena rispecchi meglio la vita celeste, poiché l’una conduce all’altra. Seguendo l’esempio di Gesù e il suo insegnamento ad amare il prossimo, possiamo contribuire a farlo. Se viviamo la nostra fede in Cristo e mettiamo al centro chi è vulnerabile, povero e emarginato, allora viviamo il messaggio di speranza.

Durante questo tempo di pandemia è stata pubblicata l’ultima enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti. Che cosa le è rimasto impresso del messaggio che il Papa desidera trasmettere con questo documento incentrato sulla fraternità e l’amicizia sociale?

Fratelli tutti è un documento molto intenso e propone una visione sistematica, ambiziosa e coraggiosa per un mondo futuro migliore. È basato interamente sulla cristologia, con Cristo al centro. È anche una lettera che affronta seriamente la vastità e la complessità dell’umanità. I riferimenti del Papa ai suoi incontri con figure come il Patriarca ecumenico e il Grande Imam, l’ispirazione che trae dal Mahatma Gandhi e i riferimenti al dottor Martin Luther King Jr e all’arcivescovo Desmond Tutu evidenziano che la sua visione non è solo per la Chiesa cattolica, ma per l’intera umanità; è una delle ragioni per cui la sua visione è sia ambiziosa sia convincente.
Il Santo Padre prende a cuore tutti gli aspetti della vita umana dall’individuo alla multinazionale, dalla famiglia al mondo del commercio e dell’industria o a quello della politica. Spiega i pericoli gemelli del “comunitarismo” e dell’individualismo, lo Scilla e Cariddi della politica e della filosofia. Entrambi conducono alla tirannia e all’anarchia.
Nei suoi contatti con persone come il Grande Imam, che anch’io conosco, egli dimostra che non esiste inevitabilità nel conflitto interreligioso o culturale. Lo scontro delle civiltà è un concetto che ignora la realtà della nascita, vita, morte, resurrezione e ascensione di Cristo, capace di trasformare l’universo: una trasformazione che consente che l’opera creativa del Padre attraverso il Figlio prosegua nella potenza dello Spirito rendendo visibile il Regno di Dio.

Fratelli tutti termina con una preghiera ecumenica. Che contributo può dare il movimento ecumenico per costruire un futuro migliore in un mondo frammentato, scosso da guerre e da atti di terrorismo come quelli a cui abbiamo assistito di recente in Europa?

Uno dei problemi che affligge molti cristiani è l’idea che la loro Chiesa sia l’unico organismo cristiano esistente, oppure, se riconoscono la presenza di altri cristiani, pensano che abbiano generalmente torto. Di tanto in tanto questo vale per gli anglicani, ma anche per altri. Quando guardiamo ai fratelli e alle sorelle cristiani dai quali siamo separati a causa di un evento storico o per questioni dottrinali, vediamo vere persone di Cristo, altri pellegrini in cammino e persone, amate da Dio e servite da Dio, dalle quali possiamo imparare. Un inno inglese lo dice:

In Cristo non c’è est né ovest,
in lui nessun nord né sud,  
ma una grande compagnia d’amore
in tutto il grande mondo.

In lui i cuori sinceri ovunque
troveranno la loro alta comunione;
il suo servizio è il filo d’oro,
che lega stretta l’umanità.

Unite dunque le mani, figli della fede,
a qualunque razza apparteniate;
chi serve il Padre mio come suo figlio
è certamente mio familiare.
(Inno di John Oxenham, 1908)

Gli esseri umani hanno la tendenza a costruire barriere e a segnare il territorio. Questo avviene nella Chiesa e anche in ambito politico. Le frontiere implicano, e a volte falsamente  impongono, differenza. Quello che il movimento ecumenico ha fatto e che continua a fare è scalfire lentamente quelle frontiere. Ogni tanto si compie un passo avanti più importante, come abbiamo visto con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione cattolico-luterana, alla quale ora hanno aderito anglicani, metodisti e riformati. Di tanto in tanto il confine viene aperto e la frontiera diventa permeabile.
Uno dei benefici reali e tangibili del movimento ecumenico è che, a livello individuale, sono stati costruiti rapporti di fiducia e di amicizia superando le differenze denominazionali; le barriere sono state abbattute dall’amicizia (o dalla “fraternità”). Vivo ogni giorno in una comunità ecumenica, poiché quasi dall’inizio della mia presenza a Lambeth Palace c’è con noi un gruppo residente della Comunità Chemin Neuf. Nel corso degli anni tra loro ci sono stati anche cattolici, anglicani e luterani. Ho un direttore spirituale cattolico, con il quale di recente ho collaborato alla prefazione di un’edizione francese di Fratelli tutti. In tutti questi rapporti l’altro non è un estraneo bensì un compagno di pellegrinaggio; un amico; una sorella o un fratello.

In una recente lettera alla nazione britannica lei ha scritto che ci sono tre risposte alle domande che la pandemia ha posto a tutti noi: stare calmi, avere coraggio, essere compassionevoli. Perché ha evidenziato questi tre aspetti?

In un nemico nascosto c’è qualcosa che suscita paura. Ma la paura non la si sconfigge con il panico, anzi, la si amplifica. La calma, invece, ci offre lo spazio per fare il punto e agire in modo ponderato. Riporta al termine ebraico “shalom” e richiama alla mente la “grande bonaccia” dopo che Gesù ha placato la tempesta in Matteo 8, 26. La mancanza di calma nei loro cuori porta al suo rimprovero. Ma dobbiamo essere coraggiosi. Nei periodi di lockdown ci sono stati molti titoli di giornali che dicevano che le chiese erano chiuse. Forse gli edifici lo erano, e la vita sacramentale della Chiesa è stata sconvolta, ma la Chiesa era aperta. I cristiani di tutte le denominazioni hanno cercato e aiutato gli altri: i loro vicini e gli altri nel bisogno. È chiaro che dinanzi a una pandemia da coronavirus siamo tutti coinvolti.

Papa Francesco quest’anno ha ripetuto molte volte che usciremo da questa crisi solo se ci prenderemo cura dell’altro e se riconosceremo che siamo tutti sulla stessa barca. Tuttavia, in Europa, e non soltanto in Europa, vediamo il populismo e il nazionalismo conquistare terreno. Qual è la risposta cristiana a questo egoismo alimentato dalla paura che stiamo vivendo?

Anch’io ho detto che siamo nella stessa barca (o che anche se siamo in barche diverse, siamo nello stesso mare e stiamo affrontando la stessa tempesta) e che dovremmo cercare di prenderci cura di noi stessi e delle nostre comunità, attingendo forza e coraggio gli uni dagli altri e camminando insieme. La paura fa costruire le barriere delle quali ho parlato prima. Più le persone sono attanagliate dalla paura e più queste paure sono usate o manipolate dai leader politici, più la Chiesa è chiamata a dimostrare qualcos’altro: accoglienza, servizio e amore.
In tutta la Fratelli tutti Papa Francesco intreccia l’individuo e il sociale, respingendo gli estremi di entrambi e sottolineando la loro interdipendenza. Il sacerdote anglicano e poeta del XVII secolo, John Donne, ha scritto che “Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso”. Ogni persona è collegata ad altre, e quando una soffre, altre soffrono con lei. Il Santo Padre mostra in tutta l’enciclica che questo vale oggi come quattrocento anni fa e nell’intera storia umana.
Nell’enciclica c’è un capitolo molto intenso che esamina la parabola del Buon Samaritano. Il Buon Samaritano ha superato il nazionalismo e il pregiudizio con l’amore incondizionato.  In quel rapporto di amore e cura non c’erano né un ebreo né un samaritano, bensì due esseri umani, uno nel bisogno e l’altro che provvede a quel bisogno. La risposta cristiana all’egoismo è l’amore, un messaggio che attraversa l’intera lettera di Sua Santità.

Lei ha detto in un’intervista che prega ogni giorno per il primo ministro britannico Boris Johnson. Durante una messa a Santa Marta, Papa Francesco ha chiesto di pregare per i leader politici che in questo periodo devono prendere decisioni difficili. Secondo lei, che posto occupa oggi la preghiera, o anche il rapporto con Dio, in un mondo sempre più secolarizzato?

Prego quotidianamente per il primo ministro e per tutti gli altri che ogni giorno devono prendere decisioni politiche quasi impossibili. Dopo quella intervista, secondo alcuni titoli nei social media io avevo “ammesso” di pregare per il primo ministro. Non lo ammetto come se fosse un colpevole segreto; è mio dovere, ed è qualcosa che faccio prontamente e volentieri per lui e per altri.
La preghiera è la linfa vitale della nostra relazione con Dio. La preghiera è bella, intima e sempre sorprendente. La preghiera è partecipazione alla creazione e ricreazione; nella preghiera cambiamo noi e cambia il mondo. Ma se vogliamo veder cambiare le cose, iniziamo dalla preghiera – non inviando un elenco di richieste in cielo, ma permettendo a Dio di cambiarci – di renderci più simili a Cristo.

Pace, ecologia e giustizia sociale sono tra i temi sui quali lei e Papa Francesco siete più impegnati. Qual è la sua speranza per il futuro del suo rapporto con il Papa, che ha già incontrato molte volte e con il quale condivide il desiderio di andare insieme in Sud Sudan espresso dopo l’incontro con i leader sud-sudanesi a Santa Marta nell’aprile 2019?

Apprezzo profondamente la mia amicizia con Papa Francesco. Abbiamo iniziato il nostro ministero quasi contemporaneamente e condividiamo molte preoccupazioni comuni. Per entrambi la pace e la riconciliazione sono essenziali. Il ritiro al quale il Santo Padre e io abbiamo partecipato con i vari leader politici del Sud Sudan è ad oggi una delle esperienze più intense della mia vita. Poterci recare insieme in Sud Sudan rimane una speranza concreta. Finora non è stato possibile, ma le Chiese, cattolica, anglicana e presbiteriana, in Sud Sudan e a livello internazionale, hanno continuato ad adoperarsi per la pace e per un futuro giusto e duraturo per quel paese. È mia speranza che, quando sarà di nuovo possibile viaggiare, ci saranno stati progressi tali nel processo di pace del Sud Sudan da consentirci di recarci lì per celebrarlo e incoraggiare l’approfondirsi della pace e la crescita nella società.
Al termine di uno dei miei incontri con il Papa, lui mi ha detto di ricordare le “tre P: preghiera, pace e povertà”. Spero che nel proseguo della nostra amicizia queste “tre P” possano continuare a unirci: preghiera reciproca l’uno per l’altro e per il mondo e l’impegno sia per la pace e la riconciliazione, sia per cercare di migliorare la vita dei poveri.  

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17 novembre 2020, 12:24