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Papa Francesco a Lampedusa nel 2013 getta in mare una corona di fiori per quanti hanno perso la vita nei viaggi della speranza Papa Francesco a Lampedusa nel 2013 getta in mare una corona di fiori per quanti hanno perso la vita nei viaggi della speranza

Lampedusa, il cardinale Montenegro: un viaggio che continua

Il cardinale Montenegro, arcivescovo di Agrigento, nel 2013 accompagnò il Papa nella sua visita all’isola siciliana. Oggi ricorda i momenti più intensi di quella giornata e denuncia la propaganda di chi, in tempo di pandemia, tratta i migranti come untori

Fabio Colagrande – Città del Vaticano

Lampedusa come punto di partenza di un pellegrinaggio di Francesco che da allora continua in tutto il mondo, per guardare con il cuore i migranti, come tutti gli scartati dalla globalizzazione dell’indifferenza. Così descrive il viaggio del Papa a Lampedusa di sette anni fa il cardinale Francesco Montenegro, l’arcivescovo di Agrigento che accompagnò quella mattina il Pontefice durante la visita all’isola siciliana. Da sempre attento alla realtà dei migranti, il porporato ha ricordato ai microfoni di Radio Vaticana Italia i momenti più intensi di quella giornata e le reazioni del Papa di fronte a tante storie di sofferenza ascoltate a Lampedusa. Oggi che gli sbarchi sulle coste siciliane proseguono il cardinale Montenegro denuncia una politica europea che continua a considerare emergenza una realtà strutturale come le migrazioni ma anche la propaganda di chi in tempo di pandemia tratta i migranti come untori.

Ascolta l'intervista al cardinale Francesco Montenegro

R.- Quel viaggio ci ha stupito ed è stato stupendo. Anche perché da quel momento Papa Francesco ha preso la rincorsa e non si è fermato più. Le cose dette quel giorno a Lampedusa le ha continuate a dire con sempre più forza. E come se stesse facendo un viaggio in tutto il mondo cominciato sette anni fa dal porto di Lampedusa. Questo per me è il significato di quella visita. Nel pentagramma musicale c'è quella chiave che mi permette di riconoscere le note, ebbene è come se il Papa venendo nella nostra isola nel 2013 abbia fissato quel pentagramma e oggi resta fedele a quello spartito, a quelle note e continua a ripeterle. È vero che spesso sembra che le sue parole non abbiano effetto ma nel Vangelo leggiamo che il seme diventa albero piano piano.

Ci sono delle immagini in particolare di quell’8 luglio che le sono rimaste impresse?

R.- Tante, ma forse un momento in particolare. Io non avevo avuto incontri con Papa Francesco, non lo conoscevo. Così rimasi colpito vedendo che durate la visita sulla nave guardava e ascoltava con interesse e meraviglia tutta la gente che ci accompagnava. Poi a un certo punto ci ha chiesto cosa significasse “O' Scià,”, il saluto degli isolani che sentiva ripetere. E quando gli abbiamo spiegato che era un saluto lui ha chiesto i fogli dell’omelia e se lo è appuntato e infatti poi durante l'omelia ha salutato proprio con questa espressione. Mentre poi arrivavamo nel luogo dove avrebbe dovuto gettare in mare la corona di fiori in ricordo dei migranti morti nel Mediterraneo, mi ha colpito quando si è alzato e si è estraniato da tutto e da tutti. Aveva di fronte sulla terraferma molte persone che gridavano e salutavano, c’erano tante barche attorno alla nostra. Ma lui era completamente assorto. Poi ha gettato la corona ed è ritornato in sé. Mi ha anche impressionato il fatto che appena siamo arrivati abbia voluto salutare uno per uno tutti gli ospiti del centro di accoglienza di Lampedusa, parlare con ognuno di loro anche se ci consigliavano di fare presto. Le parole che lui ha usato di più quella mattina, e questa è stata la nota dominante, le parole che spesso mi ha ripetuto sono state: “Ah, ma quanta sofferenza!”. È un uomo che quel giorno è venuto in pellegrinaggio, ha guardato col cuore e continua a guardare col cuore. 

In queste settimane gli sbarchi nell’agrigentino e a Lampedusa continuano e a tutto ciò si aggiunge l'emergenza Covid. Come sta vivendo la sua diocesi questa fase così difficile?

R.- La viviamo senz’altro cercando di reagire in modo positivo, ma qui gli sbarchi ci sono sempre stati, non possiamo dire che siano ripresi. Continuano, non con grossi numeri ma anche solo con piccole imbarcazioni. Perché ormai quella strada è aperta e nessuno la potrà chiudere. Noi purtroppo, per non voler affrontare il problema dell'immigrazione, e lo dico anche a livello europeo, stiamo continuando a trattarla come emergenza, ma emergenza non è. Ormai è un fatto naturale, perché la gente deve andare via di là: per motivi politici, per problemi ambientali, per la fame. Ma c’è un Europa che ha paura dell'Africa. Probabilmente ha paura che gli africani ritrovino la loro identità. Il loro è un continente giovane e può mettere in crisi la nostra vecchia Europa.

C’è chi dice che oggi l’agrigentino ha bisogno di turisti e non di migranti: come risponde a questi slogan?

R.- Sono d’accordo che abbia bisogno di turismo, ma bisogna anche attrezzarsi per ricevere i turisti. Ma non ha senso dire che non ha bisogno di migranti perché si sa bene che poi questi migranti non si fermano ad Agrigento. Non vogliono restare qui. Noi non abbiamo lavoro neanche per noi, per i nostri giovani, che infatti partono e se ne vanno in Germania. Qui un giovane su due è disoccupato, quindi non credo che uno straniero possa e voglia restare qui. Certo, dovremmo attrezzarci meglio per avere più turismo, ma questo dovrebbe essere un impegno di chi ha responsabilità politiche e tecniche. Ma non si può dare la colpa soltanto agli immigrati, anche se capisco che può far comodo: trovare l'untore è sempre un bel gioco.

Domenica 5 luglio è iniziato ad Agrigento l’ottavario dedicato al vostro co-patrono san Calogero, un'occasione per ricordare i valori dell'accoglienza…

R.- Accogliere il forestiero per noi cristiani è un valore sacro: è il Vangelo che ci chiede di farlo. Io sottolineo sempre una contraddizione: noi agrigentini ci inginocchiamo davanti a San Calogero che è un santo “nero”. Lui ce lo teniamo stretto, mentre gli altri “neri” vogliamo respingerli. Lui che è nero, secondo la tradizione, venne ad aiutare i bianchi appestati, senza porsi alcun problema. Se davvero fossimo devoti di san Calogero, ed essere devoti significa saper imitare, dovremmo essere capaci anche di accogliere. In mezzo a tutta questa gente che arriva ci possono essere i delinquenti, non dico di no, ma ci possono essere anche i santi.

Papa Francesco ci ha detto che il tempo della pandemia non può essere il tempo dell'egoismo. Anche lei lo vede come un tempo opportuno per la solidarietà?

R.- Devo dire che c'è stato un risveglio di solidarietà in questi mesi di pandemia. Non legata necessariamente al Vangelo, ma spontanea, diciamo anche laica. Io quello che mi auguro è che non dimentichiamo troppo presto quello che è avvenuto ma semmai sappiamo approfondirlo per aiutarci di più. Oggi che la pandemia sta terminando non me ne devo accorgere solo dal ritorno della movida, ci sono altre strade da percorrere. Ecco, noi corriamo il rischio di dimenticare. In quei giorni la paura ha preso il sopravvento, anche tanta preghiera è stata fatta solo per paura. Ma dovremmo piuttosto pregare per metterci in ricerca di Dio, per sentirlo vicino. Siamo nelle mani di Dio e tutti abbiamo bisogno di conversione. Senz'altro dopo questi mesi qualcosa dovrà cambiare, io credo, anche nella Chiesa.

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08 luglio 2020, 08:04