Giornata della donna: Helen e le ragazze nigeriane nel cuore di suor Rosalia
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Sono donne “distrutte”, “sfilacciate”, delle quali bisogna “ricucire” il tessuto umano, facendo capire loro che solo puntando “gli occhi su sé stesse” potranno scoprire che hanno “una missione bella da portare avanti”, perché se è vero che hanno bisogno di aiuto è altrettanto vero che hanno “tanto” da donare. Sono le ragazze, quasi tutte nigeriane vittime di tratta, di violenza, di abusi, di cui nella Giornata internazionale della donna parla suor Rosalia Caserta, responsabile dell’Istituto San Giuseppe di Catania. La religiosa delle Serve della divina provvidenza, un passato come missionaria in Uruguay e poi come volontaria tra le detenute del carcere Piazza Lanza della città siciliana, racconta della sua comunità, composta da quattro realtà: “Casa di Agata”, fondata per accogliere ragazze sole in difficoltà; “Casa Padre Pino Puglisi”, per ragazzi e minori; “Il Vasaio”, per ragazze adolescenti; “Casa Maria Marletta”, per mamme con bambini. Con Pope si sofferma sull’esperienza della “Casa di Agata”: è “una ricchezza davvero grande aver incontrato queste ragazze”, dice.
R. - La “Casa di Agata”, da quando è nata nel 2012, ha sempre accolto giovani donne un po’ allo sbando, poi in maniera più strutturata ha aperto le sue porte alle ragazze che arrivavano con gli sbarchi. Soprattutto attorno al 2014-2015, che sono stati gli anni più forti in cui continuamente arrivavano le navi, si è capito che per queste ragazze non c’erano molti posti su Catania, perché ci sono parecchi luoghi di accoglienza maschile ma meno per quella femminile.
Da dove venivano?
R. - Erano per la maggior parte ragazze nigeriane, perché più a rischio di tratta. Al porto le accoglievano le ong e l’Oim e, capendo che c’era un problema di tratta, le mandavano da noi.
Continuano ad arrivare?
R. - Da almeno un anno e mezzo non ci sono arrivi massicci. Continuano invece ad arrivare ragazze che sono già passate da noi, poi sono andate negli Sprar (enti appartenenti al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr), ma avendo mantenuto i contatti con noi - e trovandosi senza lavoro né casa - chiedono di tornare.
Quanti anni hanno le ragazze da voi assistite ora?
R. - Hanno in media vent’anni: le ragazze che magari erano arrivate da noi attorno ai 16 - 17 anni sono cresciute. Molte di loro ora hanno bimbi, perché sono arrivate già in gravidanza, e una volta nati i piccoli sono passate dalla “Casa di Agata” alla nostra comunità che accoglie le mamme con figli.
Come siete entrate in contatto queste ragazze e avete iniziato a conoscerle?
R. - Grazie all’aiuto di una mediatrice culturale, Helen, una donna nigeriana che lavora con noi, è nostra dipendente da tanti anni. A questa donna le ragazze confidano molto: è della loro terra, la chiamano mamma, si fidano. Raccontano le loro storie di violenza subita, addirittura con riti woodoo prima di partire, poi riferiscono che alcune mamme accompagnano le loro figlie dalle “madame” e raccomandano di essere loro obbedienti. Ci parlano inoltre delle sofferenze che hanno sofferto in Libia: tutte le nostre ragazze, oggi donne, sono passate attraverso la Libia e fanno racconti atroci di violenza, di abusi, di fame. Quando al loro arrivo le abbiamo portate in ospedale qui a Catania per dei controlli, abbiamo dato loro magari un pacco di biscotti, considerato davvero come oro dalle ragazze! Una cosa molto impressionante, almeno all’inizio.
Chi sono le “madame”?
R. - Le “madame” a volte sono anche delle parenti o delle donne perlopiù africane, nigeriane, ma anche italiane o colombiane, che fanno da anello con la malavita italiana e seguono questo traffico: attraverso altre nigeriane, portano queste ragazze qui in Italia con la scusa del lavoro, anche se poi molte di loro si rendono subito conto che il lavoro è la strada. A volte queste ragazze si sentono tradite dalle stesse famiglie, perché le famiglie lo sanno come qui le aspetti la strada.
Quando arrivano in Italia, dunque, le ragazze hanno già il contatto con queste donne?
R. - Sì, i contatti ci sono, hanno i numeri di telefono nascosti a volte nelle treccine dei capelli: è capitato che al loro arrivo noi le abbiamo aiutate a slegare queste treccine e dai capelli sono spuntati dei rotolini di carta con un numero di telefono, senza nemmeno un nome. Ma loro ricordano i nomi! La cosa strana è che queste “madame”, che le aspettano in Italia, le cercano: vanno nei centri dove fanno le analisi per i controlli, negli ospedali, nelle scuole dove le mandiamo. Le perseguitano. Ma le giovani si sentono moralmente obbligate dalla famiglia a chiamare queste persone, perché sentono magari che i genitori rimasti a casa sono in pericolo. Queste cose poi un po’ le sfatiamo, attraverso la mediatrice che parla con loro, spiegando che non ci saranno ritorsioni a casa, però la famiglia nell’80% dei casi fa richiesta di soldi e loro non vedono l’ora di guadagnare dei soldi per mandarli in patria.
“Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna”, ha detto il Papa. Quale vicinanza offrite a queste ragazze ma anche quale riflessione proprio di fronte ai ricatti morali, alle violenze fisiche e psichiche?
R. - Siamo vicine a queste persone per far capire loro la bellezza della donna, la sua grandezza per l’umanità, sottolineando quanto sia importante essere persone libere, che si reggono sulle proprie gambe, che hanno le capacità e le potenzialità per farcela. E diciamo quanto Dio conti su di loro per cambiare un po’ la società, che è pervertita per certi aspetti. Non è facile. Certe ragazze hanno scelto di non sentire più la mamma, la famiglia, hanno cambiato scheda telefonica: si sentivano torturate dal desiderio di parlare con le mamme, perché sono le loro radici, ma davanti avevano la prospettiva dell’essere libere, del lavorare onestamente, del poter studiare. Però poi il desiderio di sentire di nuovo i genitori è tornato, perché è normale, non si può cancellare. Ma nel frattempo sono cresciute, hanno riflettuto, hanno imparato a parlare con gli altri, hanno fatto amicizia, sperimentato dei legami più sani, acquisendo maggiore autostima. Adesso, tra mamme con figlie e ragazze sole, abbiamo una decina di persone: non sono numeri elevati, non si può lavorare con numeri troppo alti.
Che futuro si prospetta per loro?
R. - Abbiamo creato dei percorsi particolari e specifici. Intanto vanno a scuola, conoscono la lingua italiana: è basilare farsi capire e comprendere. E poi abbiamo potenziato le attività manuali, con dei laboratori interni alla nostra struttura, dalla ceramica al cucito, dalla falegnameria alla pasticceria. Grazie all’aiuto della Cei, con la Campagna triennale “Liberi di partire, liberi di restare” che si conclude quest’anno, abbiamo presentato dei progetti che sono stati finanziati. Abbiamo fatto un corso di pasta fresca, uno di panificazione e quest’anno uno per prodotti per celiaci, mettendo a frutto anche un corso seguito l’anno scorso con l’Unicef sulla imprenditoria giovanile. Quindi abbiamo chiesto alla diocesi la possibilità di avere una bottega, un punto vendita, che ci è stato concesso. Il primo febbraio avviamo inaugurato il punto vendita, gestito dalle ragazze affiancate da un nostro operatore. E in più stanno tenendo delle ore di formazione nelle scuole elementari e medie dell’hinterland catanese, nelle quali con l’aiuto di insegnanti parlano di migrazioni, accoglienza, integrazioni, raccontando in alcuni casi anche le loro storie: questo percorso culminerà a fine aprile con uno spettacolo teatrale.
La capacità sta pure quindi nello scoprire cosa possano offrire loro a noi…
R. – Certo, noi ci siamo così arricchiti! Hanno una capacità manuale così bella, hanno dei colori così diversi dai nostri, più vivaci. Ai laboratori di cucito, di ceramica hanno portato un plus ultra di bellezza. Nei laboratori curiamo molto la gradevolezza del prodotto e diciamo a ciascuna ragazza: tu sei donna, sappi che se anche hai una storia bruttissima dentro sei bella, a immagine di Dio, quindi se ci metti un po’ di impegno e ti lasci aiutare questa bellezza viene fuori. E, attraverso la libertà che si lascia loro nel creare, raccontano le loro storie, le loro usanze, le loro tradizioni. Rivelano la loro felicità. Sono persone che non soltanto hanno bisogno di ricevere, ma possono dare tanto.
Nella Giornata internazionale della donna, che mondo è quello visto con gli occhi delle ragazze dell’Istituto San Giuseppe e con i suoi occhi, suor Rosalia?
R. - È un mondo che rischia di oscurare un po’ la bellezza della donna: più spazio nella società, nella Chiesa, nella politica, c’è bisogno della donna. Fino a quando la donna non sarà integrata secondo il progetto di Dio sarà un mondo povero. Certo dev’essere una donna cresciuta, con dei valori. Noi lavoriamo molto perché le donne, come arrivano da noi, sono distrutte, sfilacciate, non è che arrivi un tessuto sano, integro. Quindi prima bisogna ricucirlo e poi è necessario far puntare gli occhi su sé stesse, ognuna ha una missione bella da portare avanti.
C’è una frase, un gesto tra i tanti delle ragazze che l’ha colpita di più?
R. - I regali più belli che fanno sono quando vengono da dietro le spalle e all’improvviso ci abbracciano, perché hanno un pochino sperimentato quell’affetto, quasi quella presa in carico di una mamma. È una cosa molto bella, una ricchezza davvero grande aver incontrato queste ragazze. Io per esempio mi sento molto privilegiata perché la mediatrice che lavora con noi è una ragazza che si è riscattata da un mondo di violenza e schiavitù: la risposta più bella ce l’ha data lei, che si è sposata, ha una bellissima famiglia, si dedica a queste ragazze anche al di fuori dell’orario di lavoro. È una gioia vedere che ancora adesso permane lo stesso entusiasmo in Helen e in altre ragazze come lei, che magari fanno le mediatrici in altre comunità e lavorano normalmente.
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