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Padre  Gaël Giraud Padre Gaël Giraud 

Giraud: Stati attuino transizione ecologica prima che si tardi

Intervista con il gesuita esperto di economia e finanza: l’emergenza destabilizzerà tutto, bisogna prevedere investimenti “verdi” sottraendoli ai vincoli del patto di stabilità europeo

ANDREA TORNIELLI

Gaël Giraud, 49 anni, prete gesuita di origini svizzere, capo economista dell’Agence Française de Développement e Direttore di ricerche al CNRS (Centre national de la recherche scientifique) è autore del libro “Transizione ecologica” (pubblicato in Italia da EMI). Conosce dall’interno il mondo finanziario per averlo frequentato ai più alti livelli prima di decidere di seguire la vocazione sacerdotale ed è oggi una delle voci che più lucidamente si leva nell’indicare l’urgenza della transizione “verde” come ha proposto l’enciclica Laudato si’. «La nostra generazione parla ma non agisce» ci dice nel corso di questo colloquio avvenuto a Roma.

Padre Giraud, quattro anni fa Papa Francesco pubblicava l’enciclica Laudato si’. Come giudica la ricezione di quel documento?

R. - «È stata ambivalente, a mio avviso. Da una parte la ricezione è apparsa molto entusiastica: Laudato sì è fino a questo momento, a livello mondiale, l’unico documento spirituale e anche politico che offre un orizzonte escatologico del cammino ecologico, dell’alleanza con la creazione. E che allo stesso tempo propone un’analisi scientifica accurata, con raccomandazioni improntate al realismo. Non conosco alcun documento equivalente da parte degli Stati laici. Nel primo periodo c’è stata dunque una ricezione molto positiva. Purtroppo però gli Stati d’Europa non hanno fatto niente. In Francia, ad esempio, le emissioni di CO2 sono aumentate del 3,2 per cento nel periodo che va dal 2010 al 2017. Dunque si parla molto di ecologia ma si agisce poco o niente. I giovani, almeno in Francia, stanno lottando e scioperando per imporre una politica ecologica. Il partito ecologista è oggi il terzo partito francese. Secondo me i giovani lotteranno sempre di più per l’ecologia e dunque potrebbe accadere che la prossima generazione metta in pratica ciò che il Papa dice nell’enciclica. Ma la mia generazione, e quella precedente alla mia, parlano senza agire».

In quali settori rileva la resistenza maggiore?

R. - «La resistenza è innanzitutto nel settore bancario. Ai banchieri la transizione ecologica appare molto pericolosa, in quanto i bilanci sono ancora colpiti dalla crisi economico finanziaria del 2008. Per loro la priorità è salvare le banche, e la situazione è molto rischiosa anche senza il problema climatico. Molti di loro pensano che se devono rispondere anche all’emergenza climatica, la vita diventerebbe davvero difficile per loro. È per questo motivo che i banchieri dicono: per noi salvare le banche è la priorità, tutto il resto non vale la pena. Ho parlato con finanzieri di Londra lo scorso dicembre, abbiamo discusso un giorno intero sulla crisi ecologica e alla fine hanno capito perfettamente che la situazione è gravissima».

Qual è stata la loro risposta di fronte a questa constatazione?

R. - «Mi hanno detto: noi non faremo nulla perché abbiamo lottato per quarant’anni per prendere il potere con i mercati finanziari, e adesso non lasceremo tutto solo a motivo del cambio climatico. Allora ho domandato loro come si sarebbero comportati per garantire un futuro ai loro figli, e mi hanno risposto che li avrebbero trasferiti in Svezia, perché grazie al cambio climatico quello sarà un Paese dove vivere. Nel frattempo i cinesi stanno mettendo in atto quelle politiche ecologiche che noi vorremmo vedere applicate in Europa: stanno facendo la transizione energetica a favore delle energie rinnovabili. Quando ho fatto osservare questo, mi hanno risposto citando la superiorità tecnologica europea. Ma si tratta di una pura illusione: è chiaro infatti che nel giro di dieci anni anche la tecnologia militare cinese sarà allo stesso livello di quella europea. Mi spiace di aver dovuto riscontrare questo cinismo da parte di molti banchieri. Certo, non di tutti, perché ce ne sono alcuni che hanno capito perfettamente il rischio climatico e i rischi che esso comporta per la stabilità finanziaria. Posso citare ad esempio il Governatore della Banca Centrale di Londra, Marc Carney, che dopo la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, nel 2015, ha affermato in modo chiaro che il rischio più importante per la stabilità finanziaria è proprio quello climatico. Ma anche il Governatore della Banca centrale francese l’anno scorso ha riconosciuto questo rischio».

E la politica? Non sarebbe necessario un sussulto di responsabilità in questo senso?

R. - «Nel 2015 tutti i politici europei hanno citato positivamente Laudato si’. Hanno detto di aver letto l’enciclica, hanno detto che è meravigliosa, hanno detto che bisogna metterla in pratica. Ma poi non hanno fatto niente, forse per colpa della mancanza di tempo per pensare. La maggioranza dei politici europei oggi ha dei ritmi di lavoro pazzeschi: hanno cinque minuti alla settimana per pensare, per riflettere, su un tema del quale loro sanno poco o nulla. Perché quando erano studenti, il cambio climatico non era uno dei temi importanti oggetto di studio e di ricerca. Dunque, gli attuali politici europei non hanno il tempo per riflettere e non prendono sul serio l’emergenza climatica. Certo, parlano con i loro consiglieri. Ma anche questi consiglieri hanno poco tempo per riflettere. Me ne rendo conto, perché sto lavorando molto con il governo francese e con i governi dei Paesi del Sud: è la stessa tragedia in ogni Paese, un ritmo di lavoro pazzesco che ha come conseguenza il fatto che questa generazione non ha tempo per riflettere e pianificare».

Manca una politica di ampio respiro, che sappia pianificare, pensare al futuro, farsi carico delle prossime generazioni, pensare innanzitutto al bene comune?

R. - «Sì, di questo si avverte la mancanza, è purtroppo un dato di fatto. Allo stesso tempo, per lo meno nell’Europa occidentale, funzionari di alto livello hanno l’idea che lo Stato abbia fallito, che lo Stato sia ormai una piccola cosa e che la ogni possibilità sia nelle imprese private. C’è un incredibile neo-liberalismo nei funzionari della Commissione Europea, dei ministeri delle Finanze, in Francia, in Germania, eccetera… Ho tenuto corsi nella Scuola dell’Amministrazione francese e mi sono reso conto di ciò che i giovani funzionari pensano, sapendo che lavorare per una banca può moltiplicare in modo esponenziale il loro salario. E allora si fabbricano un’immagine del mondo nella quale le banche sono il paradigma della razionalità capitalistica. Questa è una sciocchezza. Bisogna dunque lavorare per cambiare anche la visione dei funzionari, perché i funzionari lavorano per il governo e non aiutano i ministri a pensare in modo diverso. Chi dice Stato non può fare nulla pensa che unici gli attori in grado di fare qualcosa siano le imprese».

Dunque dobbiamo sperare nelle grandi imprese e nei privati?

R. - «Quando parlo con i capi delle imprese francesi, mi dicono: sì, abbiamo compreso perfettamente il rischio climatico, ma c’è la pressione dei mercati e del valore dei titoli, delle azioni. E dunque i grandi manager spiegano di non poter fare una politica “verde” perché in questo caso rischierebbero di perdere la loro posizione in seguito alla caduta del valore delle azioni. C’è una schizofrenia notevole da parte delle imprese. Quando parliamo con i grandi proprietari delle azioni, che sono per una parte le compagnie di assicurazioni, e per altra parte i fondi pensionistici nordamericani, ci dicono esattamente lo stesso: stanno nel mercato finanziario e devono proteggere il valore delle loro azioni. Stessa storia. Manca solo il singolo proprietario delle azioni, il quale però dice: sono l’unico tra milioni di proprietari, perché dovrei essere un eroe e investire nel verde quando ci sono milioni di persone che guadagnano molto investendo in altro?

Padre Giraud, oggi però tutti parlano di investimenti sostenibili, tutti dicono di volere una finanza sostenibile. E allora?

R. - «Purtroppo gli investimenti verdi e sostenibili sono diventati un marchio pubblicitario. Tutti dicono di voler andare in quella direzione, è la politica del “green washing” per far credere di essere ecologici e conquistare consensi. Ma in verità non è possibile per il settore privato in Europa pagare gli investimenti per la transizione ecologica. Il settore privato ha infatti molti debiti, ben più alti di quelli degli Stati. Il debito privato in zona euro rappresenta mediamente il 130 per cento del Pil, mentre il debito pubblico medio è del 100 per cento. Dunque c’è molto più debito privato. Il settore privato non è pertanto in grado pagare una vera transizione ecologica, che costa molto: migliaia di miliardi. Solo per la Francia, avremmo bisogno di tra 60 a 80 miliardi di euro all’anno per almeno dieci anni. Non è tanto se pensiamo che si tratta del 3-4 per cento del Pil, ma ogni anno bisognerebbe pagarlo: il settore privato, le banche, non possono farlo, perché le banche sono deboli dopo l’ultima crisi economico-finanziaria, anche se sostengono il contrario. Basta vedere ciò che è accaduto al Monte dei Paschi di Siena».

Bisogna trovare chi paga la transizione ecologica. Chi dovrebbe farsene carico?

R. - «Gli Stati dovrebbero farsene carico. Ora bisogna comprendere che gli Stati investono meno di ciò che sarebbe necessario per preservare il capitale pubblico, come dimostrano il caso triste del ponte crollato a Genova un anno fa o le stazioni chiuse della metropolitana a Roma. Sono esempi del fatto che il capitale pubblico si rovina quando non si investe il necessario per proteggerlo. A livello di contabilità europea ogni anno siamo più poveri per ciò che riguarda patrimonio pubblico. Bisogna investire di più per proteggere il patrimonio pubblico e bisogna investire nelle infrastrutture “verdi”, ecologiche».

Com’è possibile che ciò avvenga con il vincolo europeo, il Patto di bilancio che pone limiti al deficit entro un massimale del tre pe cento?

R. - «La soluzione consiste nell’interpretare in un modo diverso i trattati europei. Questo è possibile. Ho lavorato con giuristi specializzati in diritto comunitario e mi hanno spiegato che i trattati europei permettono di interpretare in modo diverso la regola del tre per cento del deficit pubblico. Per esempio, è perfettamente possibile e perfettamente legale dire che uno Stato intende escludere dal calcolo i costi degli investimenti pubblici per la transizione ecologica. È possibile. E la Commissione europea non può fare nulla. Può discutere, può non dirsi d’accordo con questa interpretazione, ma non può affermare che sia illegale. Una prova di questo l’abbiamo avuta lo scorso dicembre, quando i francesi avevano paura dei “gilet gialli” e per le loro proteste: il commissario europeo francese Pierre Moscovici ha tenuto a Bruxelles una conferenza stampa dicendo: non bisogna distruggere tutto a Parigi perché sappiate che noi possiamo interpretare i trattati europei in modo completamente diverso, e che l’austerità dei bilanci non è una necessità. Ora, dopo che il fenomeno dei gilet gialli si è calmato, Moscovici sembra aver dimenticato quanto che aveva detto».

Che cosa dovrebbe fare dunque la politica di fronte all’emergenza climatica?

R. - «La politica deve riscoprire il suo compito, la necessità di una strategia che prenda in considerazione il bene comune e l’orizzonte di trent’anni per investire nella conversione ecologica e la re-industrializzazione “verde” dell’Europa. Questo è il piano. Ho lavorato con ingegneri ed economisti in Francia per studiare lo scenario della transizione energetica: è possibile, possiamo farlo. Non necessitiamo di una rivoluzione tecnologica, possiamo già farlo. E le tappe sono ben conosciute: il primo passo è il rinnovamento termico degli edifici, di tutti gli edifici. Il secondo la mobilità “verde”, vale a dire puntare sui treni e sulle automobili alimentate ad idrogeno, non su quelle elettriche perché anche queste nel loro ciclo di vita producono CO2. Infine la terza tappa è l’industrializzazione verde. Ho lavorato con gli ingegneri per valutare fattibilità e costi della prima tappa in Francia: abbiamo fatto tutti i calcoli e li ho presentati al presidente Emmanuel Macron, con l’accordo delle imprese costruttrici. In questo modo si creerebbe molto lavoro e un lavoro che non si può delocalizzare. Bisogna farlo, per non continuare a inquinare con l’aria condizionata e il riscaldamento. Mi è stato detto che avevo ragione. Ma non accade nulla».

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17 giugno 2019, 15:30