Morto don Roberto Sardelli, il “prete dei baraccati”
Barbara Castelli – Città del Vaticano
“Don Roberto Sardelli era un profondo credente, che aveva scelto il servizio agli ultimi come condivisione. Lui voleva sconfiggere quell’ipocrisia che impediva ai poveri di essere considerati persone”. Con queste parole don Andrea La Regina, responsabile dei macro-progetti ed emergenze nazionali di Caritas Italiana, ricorda don Roberto Sardelli, il “prete dei baraccati” dell’Acquedotto Felice, morto ieri all’età di 83 anni. Nella Roma degli anni Settanta, prosegue il sacerdote, a sua volta ex alunno dell’Almo Collegio Capranica, nell’intervista a Pope, ha testimoniato “radicalità evangelica” e una “grande fiducia nella cultura come mezzo di riscatto per coloro che sono esclusi”: “la denuncia” è stata per lui “uno stile di vita”, sempre nel dialogo e nell’incontro.
Un pastore con l’odore delle pecore
Originario di Pontecorvo, nella Bassa Ciociaria, don Roberto Sardelli è ordinato sacerdote nel 1965, a 30 anni. Durante i suoi studi filosofici e teologici ha modo di incontrare don Lorenzo Milani a Barbiana del Mugello. Per un lungo periodo soggiorna a Lione, in Francia, dove approfondisce la conoscenza dei preti operai e lo studio del teologo gesuita Teilhard de Chardin. Nel 1968 riceve l’incarico di collaboratore nella parrocchia di San Policarpo, dove inizia attivamente il suo impegno a favore di chi, soprattutto migranti provenienti dalle regioni del sud Italia, viveva nelle baracche proprio alle spalle della chiesa, nelle arcate dell’Acquedotto Felice. Nel 1969 acquista una delle baracche da una prostituta e si trasferisce nell’insediamento, dove fonda la celebre “Scuola 725”, definita dagli stessi ragazzi “la scuola del riscatto”. Si tratta di offrire un’occasione a chi veniva emarginato anche dalla scuola, consentendo di proseguire gli studi e conoscere testi e autori come Gandhi o Malcolm X. Le riflessioni venivano collezionate nel quindicinale redatto dagli stessi ragazzi. Da questo lavoro nasce la “Lettera al sindaco” e il libro “Non tacere”. Subito dopo lo sgombero della baraccopoli, nel 1973, don Roberto Sardelli si dedica alle collaborazioni giornalistiche con Paese Sera, l’Unità e Liberazione, così come con riviste del mondo cattolico. Nel 1982 fonda lo Studio Flamenco, per avvicinarsi al mondo Rom attraverso la danza; mentre dal 1989 al 1998 segue negli ospedali i malati di Aids. “Don Roberto”, sottolinea ancora don Andrea La Regina, “come dice Papa Francesco, aveva l’odore delle pecore addosso: non ha mai pensato di potersi staccare da quegli ultimi a cui lui era stato inviato, sempre nella disponibilità”.
Il potere delle parole
Nel novembre 2018, l’Università Roma Tre conferisce a don Roberto Sardelli la laurea “honoris causa” in Scienze pedagogiche per aver realizzato nei nove metri quadrati della “Scuola 725” “una delle più straordinarie iniziative di pedagogia popolare in Italia nel secondo dopoguerra”. “Credo sia stato una delle figure più straordinarie del secondo Novecento”, “un don Milani meno noto”: dichiara Massimiliano Fiorucci, direttore del dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre. “Il suo lavoro educativo – aggiunge – è stato quasi unico, soprattutto per il coraggio e la scelta radicale di trasferirsi a vivere con i baraccati, individuando nell’educazione uno strumento di liberazione per i più deboli”. Alla cerimonia il sacerdote, già 83.enne, non aveva potuto partecipare. Al suo posto, avevano ritirato il riconoscimento due ex allievi, Emilio Bianchi e Angelo Celidonio, che negli anni ’60 vivevano in agglomerati di lamiere nell’estrema periferia di Roma, senza luce, acqua e fogne.
Dare spazio alla speranza
“Per noi era una persona di casa, di famiglia”, era “una guida spirituale, una guida culturale, una guida umana”: ricorda Angelo Celidonio, ex allievo di don Roberto Sardelli. “Da bambini che eravamo – rimarca – ci ha fatto diventare degli adulti con una coscienza critica, con la capacità di ascoltare gli altri. Ci ha fatto capire quali erano i nostri diritti e ci ha fatto vedere quali potevano essere le nostre possibilità”. “Don Roberto era una persona straordinaria”, conclude, “ci ha insegnato che la parola rende liberi e fa crescere”.
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