Centrafrica, quando una Porta Santa si spalancò al mondo
Maria Milvia Morciano e Jean Charles Putzolu – Città del Vaticano
È pomeriggio e la sera si prepara lentamente ad arrivare, tingendo il cielo di rosa e oro. Le ante del portale della cattedrale di Notre-Dame a Bangui si spalancano, spinte da due mani ferme. La figura di Francesco è ritta, vigorosa. Sono passati molti anni dal quel 29 novembre 2015, primo giorno d’Avvento e data di inizio del Giubileo straordinario della Misericordia, che fu inaugurato, in anticipo, in un luogo altrettanto straordinario, nella capitale del Centrafrica. Per la prima volta nella storia, l’apertura della Porta Santa non avviene a San Pietro, sulla tomba dell’Apostolo, al centro del mondo cristiano, ma in un luogo remoto, per molti anche sconosciuto.
Capitale spirituale
Il Centrafrica è uno dei Paesi più insanguinati e divisi del mondo. Il Papa lo sceglie proprio per questo motivo, per portare misericordia e un messaggio di pace in una «terra che soffre da diversi anni la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra. Bangui diviene la capitale spirituale della preghiera per la misericordia del Padre. Tutti noi chiediamo pace, misericordia, riconciliazione, perdono, amore. Per Bangui, per tutta la Repubblica Centrafricana, per tutto il mondo, per i Paesi che soffrono la guerra chiediamo la pace!», disse il dopo essere sceso da una papamobile, priva di ogni protezione da possibili pericoli, dove aveva accettato di sedere anche l’imam.
Un gesto universale comprensibile a tutti
Una tradizione antica viene trasferita in un Paese giovane. Il significato di aprire la Porta Santa e varcare la soglia si radica in una simbologia ancestrale che a Bangui ramifica dando frutti nuovi. Si riveste di futuro. Il gesto di Papa Francesco è stato rivoluzionario perché in un luogo chiuso, pieno di barriere, apre una porta alla speranza, invita ad entrare per trovare misericordia e pace, incontrare Cristo e trasformarsi. Traduce in modo cristiano una metafora comprensibile a tutti, in ogni luogo del mondo di qualsiasi tradizione, religione, esperienza e storia. Chiunque comprende che si tratta di un fondamentale, sacro, rito di passaggio.
La linea di confine, il limes latino, punto finale, chiusura, si trasforma in limen, soglia, apertura. Forse non è un caso che due parole opposte contengano la stessa radice, ma è interessante invece richiamare il fatto che nel linguaggio ecclesiastico la visitatio ad limina apostolorum è la visita dei pellegrini alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo che risale ai primi secoli della Chiesa, estesa poi ai vescovi. Tutto, parla di Giubileo.
Porte Sante dappertutto
In quell’anno della Misericordia furono molte le Porte Sante aperte in tutto il mondo, quasi un sistema solare fatto di migliaia di stelle luminose sparse sulla terra, anche nei luoghi più remoti. È stata una grande opportunità, un dono fatto a tutti, anche di chi era impossibilitato per varie ragioni di muoversi e viaggiare. Un giubileo straordinario che si poté vivere in tutte le chiese locali, che permise a quanti lo volessero di vivere pienamente l’evento, compiere il pellegrinaggio e il passaggio della Porta della Misericordia nella propria diocesi.
Una speranza che viene da Roma
Il cardinale Dieudonné Nzapalainga, allora arcivescovo di Bangui, è uno degli interpreti nodali del suo Paese. La sua è una storia di fede e di strenua “lotta per la pace”, richiamando il titolo del suo libro nella versione italiana, pubblicato dalla Libreria editrice vaticana nel 2022. Il cardinale centrafricano ha condiviso con i media vaticani, ai microfoni di Jean Charles Putzolu, il ricordo di quei giorni e le conseguenze benefiche della visita del Papa nel Centrafrica.
Volevo riportarla al 29 novembre 2015, prima domenica di Avvento, quando Papa Francesco aprì la Porta Santa del Giubileo della Misericordia. Era a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, quindi nel vostro Paese: una tradizione molto antica che arriva in un Paese giovane. Quale pensa sia stato il significato di questo gesto per tutti i centrafricani?
È un gesto unico nella storia non solo della Chiesa universale, ma anche della nostra Chiesa.
Perché noi centrafricani, di fronte alla violenza, alla sofferenza e alla morte, trovandoci a vivere uno stato di assurdità, abbiamo sentito la speranza che veniva da Roma attraverso l'uomo di Dio, il Papa, che è venuto a placare, a portare la pace, la tranquillità e il perdono, a portare la riconciliazione invitando noi centrafricani ad aprire le porte dei nostri cuori, pieni di odio, di astio e di vendetta, per poterci guardare in faccia l’uno con l’altro. Per questo lui stesso ha detto di deporre le armi: «Prendete la giustizia, prendete l'amore». Credo che il suo gesto sarà sempre ricordato qui, nella Repubblica Centrafricana. Musulmani, protestanti, cattolici, tutti siamo unanimi nel dire che il suo arrivo è stato salutare.
E il Papa è arrivato davvero. Lei ha ricordato questo messaggio, questa chiamata a deporre le armi. C'era stata un'enorme tensione fino a quasi due giorni prima del suo arrivo a Bangui. Ci sono state altre tensioni da allora? Questo messaggio è stato ascoltato? Il messaggio del Papa è stato sentito e ascoltato? Le armi hanno taciuto?
Penso che il messaggio sia stato ascoltato. Abbiamo trascorso sei mesi dalla partenza del Papa come se ci trovassimo in un Paese normale, cosa impensabile fino a due giorni prima del suo arrivo. La sua venuta ha allentato la pressione. Abbiamo visto i musulmani uscire dalle loro enclave per unirsi ai loro fratelli cattolici allo stadio, per partecipare alla grande festa. La gente andava e veniva. Il Km 5 [sigla di cippo chilometrico 5] era considerato un luogo dove c'erano molte armi e quindi non si poteva entrare. Ma io ci andai con i cristiani a seguire il Papa, dicendo ai musulmani: «Marciamo insieme!»
Il Papa venne da Roma fino alla Repubblica Centrafricana, i cristiani di Bangui lasciarono i nostri quartieri per andare a incontrare i nostri fratelli, camminando per la pace. Ebbene, abbiamo marciato e da quel giorno abbiamo continuato a farlo. Un leader dei ribelli ci disse che avremmo dovuto parlare di spiritualità con gli imam. Gli imam organizzarono una grande riunione per chiedere ai leader dei ribelli di deporre le armi e da allora molto è cambiato. Questo è stato anche risultato della visita del Papa.
Gli imam tennero una grande riunione per chiedere ai leader dei ribelli di deporre le armi e questo ha cambiato molte cose. Questo è stato anche frutto della visita del Papa, che ci ha dato una spinta, ci ha fatto ripartire e ora ne stiamo vedendo i risultati. Oggi le armi non circolano più come una volta.
Quali pensa siano stati gli altri frutti di questo evento?
Sono stati gli incontri tra giovani musulmani e giovani cristiani. Incontri abbastanza regolari tra donne musulmane e donne cristiane, e tra di noi leader. Non molto tempo fa, a marzo, una moschea che si trova a 250 chilometri di distanza da qui è stata vandalizzata. L'imam, il pastore protestante e io abbiamo parlato al cuore dei nostri fedeli per disarmare i loro cuori e invitarli invece a collaborare, a rispettare, a valorizzare, a rispettare il luogo. Questo, a mio avviso, è il frutto di quel passaggio. Ora chiediamo anche che sia fatta giustizia. Questo significa che deve essere permesso che chi ha perso le proprie case le possa riavere, nel senso che chi ha vissuto a lungo nella casa del vicino deve essere così gentile da andarsene. E noi leader religiosi lavoriamo con il cuore. Ci sono alcuni che se ne vanno per lasciare la casa ai proprietari senza passare per i tribunali o lo Stato. Quindi penso che anche questo sia proficuo. Ora i cuori sono disposti e possiamo parlare, possiamo immaginare un futuro comune.
Quando dice che lasciano la loro casa, è che in realtà la rendono al legittimo proprietario, giusto?
Esatto.
Su un piano più personale, Eminenza, quali sono i suoi ricordi più forti e forse più vividi di quel periodo?
Il ricordo più vivo è l'ingresso al chilometro 5 due giorni prima: era impossibile attraversare il checkpoint. C'ero anch'io. L'ho visto con i miei occhi: il Papa scelse di andare su un veicolo non blindato, ma all'aperto. Tutti sanno che lì c'erano molte armi. Francesco ebbe il coraggio di andarci e abbiamo visto che anche l'imam accettò di salire sulla papamobile. Questa è l’immagine più forte. Quando sono uscito per andare allo stadio, ho visto i musulmani uscire in massa, rischiando la vita. È stata la loro fede a spingerli ad uscire. Un imam ci ha detto: «Il Papa non è venuto per voi cristiani, ma per noi musulmani. Eravamo nell'enclave, eravamo in schiavitù. Lui ci ha liberati!».
Eminenza, un’ultima domanda: lei è diventato inseparabile dall’Imam… tra cristiani e musulmani e anche con i protestanti. Realizzate iniziative insieme quasi quotidianamente. Questo è un altro frutto. Naturalmente è il risultato del vostro lavoro, ma è anche il risultato della visita del Papa…
La visita del Papa, ci ha confortato, incoraggiato e sostenuto in questo lavoro. E noi siamo stati i tre che gli hanno chiesto di venire nella Repubblica Centrafricana. Credo che tutti noi gli siamo grati. Questo è il frutto del suo passaggio.
Il Giubileo del 2025. Come vi state preparando?
Il Giubileo del 2025 è un momento importante per la Chiesa. Ebbene, qui si stanno già creando dei gruppi per riflettere, pregare, incontrarsi e anche per vedere come, a livello locale, vivremo questo momento. Quest'anno celebreremo i 130 anni di evangelizzazione nella Repubblica Centrafricana e, allo stesso tempo, ci metteremo in cammino verso il 2025, che è proprio dietro l'angolo, e stiamo lavorando su entrambi i progetti. Credo quindi che ci sia molto entusiasmo. Ero con un gruppo di giovani che si trovavano in chiesa in massa e ci siamo detti: questo è un momento importante perché è un tempo di grazia, ma è anche un momento complicato e alto. Non dobbiamo lasciar passare questo momento favorevole.
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