"Vita consacrata", da 25 anni una luce sul legame tra divino e umano
Michele Raviart – Città del Vaticano
“I consacrati e le consacrate sono interpellati in prima persona a risvegliare in tutti il senso della speranza”, soprattutto “in questo drammatico momento”, non solo a causa della pandemia, “ma soprattutto per le sue conseguenze che ci toccano da vicino nelle quotidiane vicende della comunità civile ed ecclesiale”. A ricordarlo a tutti i religiosi è il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, in una lettera che commemora i 25 anni dall’ di San Giovanni Paolo II
Identità e Trinità
Il testo, pubblicato il 25 marzo 1996 come frutto della riflessione della IX assemblea del Sinodo dei vescovi dell’ottobre 1994, venne pubblicato “in tempi di grande incertezza, in una società liquida, dalle identità confuse e appartenenze deboli” e stabilì con certezza sorprendente, si legge nella lettera, “l’identità della vita consacrata”. Un’identità che si basa sulla relazione con la Trinità, perché è un’ "icona di Cristo trasfigurato”, che “rivela la gloria e il volto del Padre nello splendore luminoso dello Spirito”. Un modo originale di intendere la vita consacrata che integra “divino e umano, intuendo quel legame misterioso e luminoso tra ascesa e discesa, fra altezza trascendente e immersione kenotica nelle periferie dell’umano, tra bellezza sublime da contemplare e povertà dolorose da servire”.
In relazione con la Chiesa e il mondo
Le implicazioni di questa relazione - una salvezza che passa attraverso la vita di chi si fa carico dell’altro, una testimonianza di una fraternità che vive quel che annuncia e ne gode, una santità non di solitari perfetti, ma di poveri peccatori e una consacrazione che non s’oppone ai valori del mondo e alla sete universale di felicità - fanno si che “oggi la vita consacrata avverte di essere ‘più povera’ rispetto a un tempo, ma vive - per grazia - molto più la relazione con la Chiesa e il mondo, con chi crede e chi non crede, con chi soffre ed è solo”.
I sentimenti del Figlio
In particolare questo è vero quando l’Esortazione apostolica affronta il tema della formazione attraverso una relazione “che arrivi a un contatto così intenso e profondo da riscoprire in sé la sensibilità del Figlio, a sua volta immagine e incarnazione della sensibilità del Padre”, Dio sensibile, che “ode il gemito degli oppressi”, “ascolta la supplica della vedova”, e “soffre con l’uomo e per l’uomo. “Vogliamo credere che la vita consacrata, coi suoi molteplici carismi, sia esattamente l’espressione di questa sensibilità”, si legge ancora nella lettera, e “che ogni istituto sottolinei col proprio carisma un particolare sentimento divino”. Una formazione “che continua nel tempo, per tutta la vita”, intesa come un processo “da capire e ancora più da attuare oggi” che conduce a “provare le stesse sensazioni, emozioni, sentimenti, affetti, desideri, gusti, criteri elettivi, sogni, attese, passioni… del Figlio-Servo-Agnello”.
L’incanto della bellezza
Il consacrato è poi “chiamato a essere testimone di bellezza”. Se Dio è bello e il Signore Gesù “è il più bello tra i figli dell’uomo”, scrive il cardinale Braz de Aviz, “allora esser a lui consacrati è bello”. Una via pulchritudinis, che “sembra l’unica via per giungere alla verità, o per renderla credibile e attraente”. Bella deve essere “la testimonianza e la parola offerta, perché bello è il volto che annunciamo”, e deve esserlo “la fraternità e il clima che si respira”. Bello deve essere “il tempio e la liturgia, cui tutti sono invitati, perché è bello pregare e cantare le lodi dell’Altissimo e lasciarsi leggere dalla sua parola”, “il nostro esser vergini per amare col suo cuore, il nostro esser poveri per dire che è lui l’unico tesoro, il nostro obbedire alla sua volontà di salvezza e pure tra di noi per cercare lui solo”. Bello è “avere un cuore libero di accogliere il dolore di chi soffre per manifestargli la com-passione dell’Eterno” e “bello dovrà esser persino l’ambiente, nella semplicità e sobrietà creativa”, “perché tutto nella dimora lasci trasparire la presenza e centralità di Dio”.
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