Sierra Leone, stop alle proteste. Paganelli: la gente ha bisogno di lavoro e stabilità
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
Dopo le proteste dei giorni scorsi, con un bilancio di 24 morti tra agenti della polizia e civili, è tornata la calma in Sierra Leone, lo Stato tra i più poveri del continente africano, dove proprio il malcontento della popolazione per il carovita col forte aumento dei prezzi del riso, del petrolio e conseguentemente del carburante è sfociato in disordini e scontri. L'iniziativa è nata da un gruppo di donne commercianti, che ha indetto una manifestazione pacifica dopo diversi appelli lanciati sui social network. Grande la preoccupazione espressa anche dall'Onu. L'ex colonia britannica, con i suoi 7 milioni e mezzo di abitanti, vive una situazione difficile, segnata dalla guerra civile, che l’ha dilaniata dal 1991 al 2002, dall’epidemia di Ebola, esplosa nel 2014, dalla pandemia di Covid-19 e dalle conseguenze della guerra in Ucraina.
Della condizione del Paese, delle possibilità aperte dalla Chiesa per uno sviluppo umano integrale, ospite a Radio Vaticana - Pope, abbiamo parlato con il vescovo Natale Paganelli, saveriano, amministratore apostolico di Makeni, di passaggio a Roma:
Che situazione sta vivendo oggi la Sierra Leone?
La Sierra Leone sta vivendo una situazione simile a quella di molti altri Paesi dell’Africa e del mondo, a causa delle conseguenze del Covid-19 e della guerra in Ucraina. A me piace dire: quando l'Europa ha un raffreddore l’Africa ha una polmonite, perché c’è una dipendenza molto forte di tanti Paesi africani - tra cui la Sierra Leone - dagli aiuti che arrivano dall'Europa, dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La situazione è peggiorata con l'aumento forte del prezzo del diesel e della benzina. Il governo lo ha aumentato del 120% e lo ha già abbassato tre volte leggermente, ma questo è stato un brutto colpo, perché sappiamo che quando aumenta il costo del trasporto, tutto aumenta, soprattutto gli alimentari. Però per capire la situazione che si è creata in questi giorni di conflitto e di proteste occorre conoscere la divisione del Paese, una divisione storica. Il Paese, praticamente è spezzato in due: il nord e la “western area”, che è la capitale, e il sud e l'est. Queste due regioni sono rappresentate da due partiti politici, per cui la lotta è costante e non si è mai riusciti, fino ad ora, a rompere questo muro, questa barriera, in modo da arrivare a creare un’alternativa o un pluripartitismo e ciò fa sì che in vista delle elezioni, che saranno il 24 giugno del prossimo anno, già inizino le schermaglie. L’altra causa forte dello scontento della popolazione è la mancanza di lavoro, un po' per tutti, e specialmente per i giovani. Quindi un Paese che non ha fabbriche - sono a conoscenza di due grosse fabbriche, una della birra e una del cemento - e poi piccole fabbriche di trasformazione del cibo, non ha lavoro. Nelle miniere c’è lavoro, ma è poco. Insomma la gente fa fatica a tirare avanti.
Quali sono le problematiche più urgenti che intravede oggi?
Penso che sia riuscire a convincere i due partiti del Paese che devono fare una coalizione per poter tirar fuori la nazione dalla povertà. Perché non è concepibile, nè accettabile che in un Paese con molte risorse minerarie il popolo sia nella povertà. Certamente ci sono ricchi in Sierra Leone, fortemente ricchi, ma sono molto pochi. La maggioranza della popolazione vive al giorno, con una economia di sussistenza. Converrebbe che la comunità internazionale, che sostiene il Paese - che già vive di sussidi - riuscisse a mettere allo stesso tavolo i leader per raggiungere una intesa di coalizione, che, credo, non piacerebbe a molti, sia in Sierra Leone, perché l’avversità tra il nord e il sud è molto forte, sia a chi sfrutta questa divisione per il controllo dei minerali e preferisce un Paese diviso. Mi riferisco a interessi stranieri.
Quali interventi politici, secondo lei, sarebbero prioritari vista la situazione?
Chi sostiene il Paese economicamente dovrebbe aiutare il governo a una amministrazione migliore della res publica, perché delle risorse che arrivano non so quante davvero siano destinate ai progetti per cui sono state donate. Non è un segreto che la corruzione sia uno dei problemi grossi che abbiamo in Sierra Leone, come in molti Paesi del mondo. Però il sistema di corrotti e corruttori, è così forte che è difficile andare avanti. La Sierra Leone è un Paese interessante, la gente ha voglia di studiare, le università sono piene, le scuole ci sono, questo governo ha fatto un grande sforzo per migliorare l'educazione dalle elementari in su. Però, se dopo non c'è uno sbocco lavorativo, la situazione è deprimente e quando una persona è frustrata e non vede futuro dopo tanto sforzo, è facile che cada nella violenza.
Nel Paese c'è tanta povertà, in che modo come Chiesa riuscite ad essere vicini alle difficoltà della gente?
Sono amministratore apostolico da 10 anni e con i sacerdoti locali stiamo cercando di dare risposte. Per esempio all'università sono stati introdotti corsi e master per creare una business class di persone che possano cominciare da piccole cose, negozi, piccoli business, per sostenere un domani le famiglie, ma anche, allo stesso tempo, per dare lavoro. Però i fondi non ci sono per finanziare questi progetti. Quindi siamo in dialogo con alcune istituzioni per potere sostenere progetti che si vedono fattibili. La diocesi, per esempio, con l’intervento di uno sponsor di Milano che ha creato una società in loco, ha dato vita a un allevamento di polli creando una catena completa e anche alla produzione di mais, che è un alimento basilare. E viene dato lavoro a una sessantina di persone. Questo per dire che bisogna creare delle fonti di lavoro, oltre ad offrire assistenza ai più poveri, soprattutto nel campo medico, perché ci sono molte malattie e molti muoiono perché non hanno risorse per pagare le medicine, per accedere agli ospedali.
La gente come vede la presenza della Chiesa e gli aiuti che vengono offerti?
La Sierra Leone è un Paese a maggioranza musulmana, le statistiche parlano del 70%, un 20% è costituito da cristiani e il 10% da quanti seguono le religioni tradizionali. Non ci sono statistiche precise, personalmente calcolo che i cattolici siano circa il 4-5% della popolazione. Quindi un gruppo piccolo ma significativo, perché la Chiesa gestisce molte scuole. Per esempio, nella diocesi di Makeni abbiamo più di 400 scuole elementari cattoliche, un centinaio di scuole medie, tra inferiori, superiori e università. Questa presenza fa sì che la Chiesa sia molto rispettata e riconosciuta per quanto fa. Sono stati, ad esempio, i missionari saveriani a iniziare l'educazione nel nord del Paese e questo lo riconoscono e anche i villaggi piccoli vogliono avere la loro scuola cattolica elementare. Però è difficile sostenere 400 scuole. Non sono scuole private, sono assistants schools, cioè parificate, ma è il governo che paga la maggior parte dei maestri, la responsabilità manageriale è in mano alla diocesi.
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